Il principio di precauzione e la libertà di espressione dei fascisti

Non entro nello specifico della discussione tecnica sul DDL Fiano, il suo rapporto con le leggi Scelba e Mancino, e l’attuale grado di effettiva applicazione delle suddette; né mi soffermo sulle polemiche da quattro soldi a proposito dell’atteggiamento scivoloso del M5S sulla questione (breve parentesi per chi ancora si facesse illusioni: il M5S è un’azienda travestita da movimento politico ma incapace di funzionare come tale per precisa volontà dei capoccia e reale incapacità della base. Punto. Piantatela di stupirvi di ogni manifestazione della loro inutilità come se fosse la più grande sorpresa politica dell’ultimo secolo).

Quello che mi interessa e mi preoccupa, invece, sono gli alti lai dei cultori della libertà-di-espressione™, quelli grossolanamente riassumibili in “Vietare la libera espressione ai fascisti è fascista”. Allora.

Come ho già avuto occasione di scrivere (parte 1 e 2), non sono una fan della censura facile, preventiva e indiscriminata. Le idee bacate è sempre meglio trascinarle alla luce del sole, dove la loro bruttezza appare evidente a tutti o quasi. Ma qui stiamo parlando di una ben precisa ide(ologi)a e di un ben preciso Paese, e pontificare di libertà di espressione in astratto senza calare il dibattito nello specifico contesto è un’omissione grave.

Tutti conosciamo o dovremmo conoscere la storia italiana e il ruolo che in essa ha giocato il fascismo; dovremmo altresì conoscere i punti cardine dell’ideologia fascista, e il modo in cui la loro applicazione ha privato una grandissima fetta di cittadini italiani dei loro diritti più basilari. Nella discussione in corso sulla libertà-di-espressione™ è sempre in primo piano il dovere dello Stato di mettere i propri cittadini in condizione di formarsi liberamente opinioni e dare loro voce senza temere arbitrarie ritorsioni. Ma si tace sorprendentemente su un altro dovere statale, quello di garantire la loro sicurezza e incolumità. E basta googlare “aggressione (neo)fascista” per rendersi conto che ancora oggi troppe persone vengono private della loro sicurezza (per non parlare dell’incolumità fisica) da nostalgici del Ventennio. Dov’è la tutela statale dei loro diritti?

Chi mastica d’Europa conoscerà il concetto di principio di precauzione, a cui si deve ispirare il legislatore chiamato a regolamentare materie su cui la comunità scientifica non ha ancora dati quantitativamente sufficienti a raggiungere una conclusione definitiva e condivisa; in tal caso, e finché non ci saranno dati più solidi a disposizione, si preferisce sempre l’approccio più conservativo onde tutelare la salute dei cittadini. Per dirla in maniera meno altisonante, nel dubbio si va con i piedi di piombo.

Nel caso del fascismo, sinceramente, mi chiedo di quale principio di precauzione potremmo mai avere ancora bisogno: sappiamo benissimo come sia andata a finire la prima volta e sappiamo anche meglio di allora quanto siano infondate quelle ipotesi di nazionalismo, superiorità razziale e ipermascolinità su cui poggia l’ideologia fascista. Nel frattempo abbiamo anche imparato che la violenza fisica non scaturisce dal nulla ma viene incoraggiata o meno dall’ambiente e dalla cultura prevalente; il linguaggio non solo gioca un ruolo importantissimo nella formazione di questa cultura ma, né più né meno, influenza anche la nostra percezione del mondo.

Per cui, se diciamo di voler difendere la libertà-di-espressione™ dei fascisti, dobbiamo anche accettare che di fatto stiamo dando loro la possibilità di continuare impunemente a intimidire e privare dei propri diritti altre persone. Stiamo dicendo a migranti, minoranze religiose, comunità LGBT e disabili: “Sorry, lo so che dicono che non sei un essere umano e un cittadino a pieno titolo, ma devi arrangiarti da solo. Io resto neutrale”. Solo che, per dirla con l’arcivescovo Desmond Tutu, uno che di privazioni di diritti ne sa qualcosa, “If you are neutral in situations of injustice, you have chosen the side of the oppressor”.

La pigrizia di Beppe: perché diversità fa davvero rima con qualità

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L’ultimo spettacolo (comizio?) di Beppe Grillo contiene il frammento riportato qui, in cui il padre-padrone del M5S riesce, nell’ordine, a: confondere travestiti e transgender; lamentarsi perché non si può più offendere impunemente alcuna delle due categorie; ridurre la questione dell’identità di genere e della transizione a un impianto penieno; ripetere il trito stereotipo della donna che parla troppo; banalizzare lo stupro; e già che c’è, offendere le sex worker. Non male, in meno di ottanta parole.

Del perché questo estratto dello spettacolo (arringa?) sia estremamente problematico si è già parlato altrove, e francamente se uno non ci arriva da solo non credo di poter fare alcunché per lui. Vorrei solo far notare una cosa banalissima: nulla in quel paragrafo fa ridere. Nulla.

Non ci vuole una laurea per capire che, se di lavoro fai il comico (tribuno?), non è una gran mossa usare pezzi che non fanno ridere. O meglio, che finalmente non fanno più ridere nessuno. A questo punto di solito c’è qualcuno che alza gli occhi al cielo e parla di dittatura del politicamente corretto, come se fosse un fenomeno reale; ma il punto è, molto più semplicemente, che l’evoluzione del costume richiede anche un’evoluzione del materiale di scena; e un comico incapace di rinnovarsi, che si ripiega su materiale vecchio e si lamenta quando gli si fa notare che il resto del mondo si sta evolvendo, non è (più) un bravo comico ma un mestierante impigrito. Certo poi ci sarebbe da discutere sulla permanenza di Grillo nella categoria comici, ma è un altro discorso.

Questo episodio secondo me dimostra molto bene un paradosso della discussione sulla diversità: quando si parla di “aprire” alle minoranze e migliorare l’inclusività e la diversità di un’organizzazione (che sia un’azienda, un parlamento o il cast di un film), c’è sempre qualcuno che obietta: “Non si può reclutare solo in base a questo, si finirebbe per abbassare gli standard!”. Lasciamo perdere il fatto che questa obiezione ignora totalmente il problema degli unconscious bias (di cui ho scritto qui) e distorce volutamente la questione (non ci si propone di reclutare solo in base a una determinata caratteristica); il punto è che aprendo a punti di vista e stili diversi, i vecchi modi di fare vengono esposti a nuovi concorrenti e se non sono in grado di migliorarsi finiscono per esserne superati. Quindi in realtà una maggiore diversità, ben lungi dall’abbassare gli standard, ha esattamente l’effetto contrario e cioè alzare il livello per chi precedentemente non doveva fare alcuno sforzo speciale.

Capisco che questa possa essere una brutta notizia per chi si è adagiato sugli allori, abituato da anni a fare il minimo sindacale per mancanza di concorrenza; ma se è capace di reinventarsi e continuare a proporre materiale di qualità non dovrebbe avere difficoltà a restare sulla breccia. Dopotutto, come amano ripeterci i paladini della meritocrazia, chi ha le capacità la strada la trova sempre.

#FertilityDay, il prevedibile disastro di una strategia sconcertante

Brevissimo riassunto del pasticcio #FertilityDay: il Ministero della Salute ha pubblicato tempo fa un corposo (137 pagine) Piano Nazionale per la Fertilità che prevedeva tra l’altro una campagna di sensibilizzazione sul tema comprendente l’istituzione di una giornata della fertilità (il 22 settembre, se volete segnarvelo in agenda) con tanto di hashtag.

Di per sé l’idea non è neanche malvagia, la denatalità può effettivamente diventare un grosso problema ed è giustissimo in ogni caso migliorare la prevenzione delle patologie che possono danneggiare la fertilità (se non altro perché in genere hanno anche altre conseguenze ed è meglio evitarle a prescindere).

Il problema è il modo in cui la campagna è stata impostata. Delle terrificanti “cartoline” con immagini di clessidre biologiche (ma non era l’orologio?) e pantofoline avvolte da un nastro tricolore di Ventenniana memoria si è già parlato parecchio, quindi non mi ci soffermo. Sono andata però a leggermi il Piano, che mi ha suscitato non poche perplessità.

Il documento si apre con la sacrosanta considerazione che, trattandosi di strategia sviluppata dal Ministero della Salute, il suo focus è la Fertilità (sì, con la maiuscola, tipo divinità minore in un manualetto di mitologia greca) dal punto di vista medico. Argomenti più attinenti alla dimensione socio-culturale ed economica quali le misure di sostegno alla famiglia non verranno trattate.

Fin qui sarei anche d’accordo, il problema è che poi le considerazioni socio-culturali saltano fuori eccome, e non in maniera positiva. In altre parole, il Piano prende in esame la botte piena delle odierne difficoltà di conciliazione lavoro/famiglia per dare addosso a quegli egoisti dei millennial (non chiamati così perché gli estensori del documento non hanno evidentemente contezza del concetto), e si libera disinvoltamente dalla moglie ubriaca del dover proporre soluzioni concrete a quelle difficoltà nascondendosi dietro il “Non è di nostra competenza”.

Non sto ovviamente a riassumervi tutte le 137 pagine, anche perché la maggior parte sono dedicate a strategie e progetti strettamente medici su cui non posso esprimere un giudizio competente. Piccola selezione commentata.

Tra gli obiettivi del Piano ci sono:

4) Operare un capovolgimento della mentalità corrente volto a rileggere la Fertilità come bisogno essenziale non solo della coppia ma dell’intera società, promuovendo un rinnovamento culturale in tema di procreazione.

5) Celebrare questa rivoluzione culturale istituendo il “Fertility Day”, Giornata Nazionale di informazione e formazione sulla Fertilità, dove la parola d’ordine sarà scoprire il “Prestigio della Maternità”.

Quasi quasi vado a rileggere The Handmaid’s Tale per controllare che il punto 4 non l’abbiano preso da lì. Tralasciando il fatto che la fertilità (minuscola voluta) non è un “bisogno essenziale”, è preoccupante che un documento ufficiale promuova l’idea che il corpo delle persone, soprattutto donne, debba essere messo al servizio della società. Sull’infelicissima idea di usare l’espressione “rivoluzione culturale” mi taccio, come pure sull’idea di appuntare immaginarie medaglie sulle ovaie delle italiane.

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L’appello per la donazione delle fedi alla Patria il prossimo anno

In più punti del Piano si parla poi della necessità di migliorare la conoscenza alla fertilità nell’ambito di una più ampia strategia di educazione alla sessualità consapevole già dai 13-14 anni, coinvolgendo pediatri, MMG e ovviamente le famiglie. Lodevole sulla carta, ma non sarebbe infinitamente più efficiente e meno ipocrita sostenere finalmente con forza i programmi scolastici di educazione sessuale e alla diversità?

Proseguiamo: una delle “cartoline” usate nella campagna parla dei genitori giovani come maggiormente “creativi”, un concetto che torna anche nel Piano (misto a un po’ di millennial-bashing gratuito):

Si assiste, infatti, ad una pericolosa tendenza a rinviare questo momento [la prima gravidanza], in attesa proprio di una realizzazione/affermazione personale che si pensa possa essere ostacolata dal lavoro di cura dei figli [che si pensa, eh. Nella realtà non succede proprio mai mai mai]. La maternità, invece, sviluppa l’intelligenza creativa e rappresenta una straordinaria opportunità di crescita. L’organizzazione ingegnosa che serve a far quadrare il ritmo delle giornate di una mamma, la flessibilità necessaria a gestire gli imprevisti, la responsabilità e le scelte implicite nel lavoro di cura, le energie che quotidianamente mette in campo una madre sono competenze e potenziali ancora da esplorare e capire come incentivare e utilizzare al rientro al lavoro [grassetto aggiunto].

Sorvoliamo su quel “la maternità sviluppa l’intelligenza creativa” che ha più o meno lo stesso valore scientifico delle scie chimiche, e raccogliamoci in silenzio per un momento sulla totale assenza del coinvolgimento maschile nel far quadrare il ritmo delle giornate e nel mettere in campo energie. Sorry, dudes. Continuate pure a dare ditate di colore sulle pareti della caverna.

Se poi vi state chiedendo che cosa si intenda parlando delle competenze materne da utilizzare al rientro al lavoro, sappiate che gli autori del Piano deplorano come

il valore sociale della maternità non [sia] considerato un valore aggiunto nei curriculum lavorativi delle donne […] Il paradosso è che per esempio, un periodo di volontariato all’estero come coordinatore di un progetto di cooperazione per qualche mese, viene considerato e può fare la differenza nella valutazione professionale, mentre gravidanza, parto, allattamento e accudimento (per es. nel caso di figli con disabilità), non sono considerati altrettanto indicativi delle capacità organizzative e di relazione della stessa persona.

L’hanno scritto davvero. Non vedo l’ora che arrivi il momento in cui potrò cliccare Endorse su LinkedIn a tutte le mie amiche mamme premiandole per le loro competenze in “biberon”, “cambio pannolini” e “bagnetto”. Dovrebbe essere superfluo, ma ve lo dico lo stesso: non mi permetto di prendere in giro i genitori. È questa idea di professionalizzazione della maternità che merita solo di essere ricoperta di ridicolo.

Ancora un po’ di millennial-bashing, commentato direttamente nella citazione (grassetto aggiunto):

Da un punto di vista psicologico sembra diffuso un ripiegamento narcisistico [il narcisismo è una patologia ben precisa, ma perché dovrebbero saperlo? In fondo è solo il Ministero della Salute] sulla propria persona e sui propri progetti, inteso sia come investimento sulla realizzazione personale e professionale, sia come maggiore attenzione alle esigenze della sicurezza, con tendenza all’autosufficienza da un punto di vista economico e affettivo [il desiderio di guadagnarsi da vivere in autonomia è narcisistico. K] . Tale disposizione, spesso associata ad una persistenza di un’attitudine adolescenziale, facilitata dalla crisi economica [la crisi produce Peter Pan che però vogliono realizzarsi professionalmente ed essere indipendenti. Mi sta venendo mal di testa] e dalla perdita di valori e di identificazioni forti, si riflette sulla vita di coppia e porta a rinviare il momento della assunzione del ruolo genitoriale, con i compiti a questo legati. Nelle donne, in particolare, sono andati in crisi i modelli di identificazione tradizionali ed il maggiore impegno nel campo lavorativo e nel raggiungimento di una autonomia ed autosufficienza ha portato ad un aumento dei conflitti tra queste tendenze e quelle rivolte alla maternità [non ci sarebbe grande conflitto se il Paese vivesse nel XXI secolo ¯\_(ツ)_/¯]

Più avanti:

Le donne si trovano all’angolo, in quello che viene definito in psicologia ‘doppio legame’. Si tratta di una condizione entro la quale qualunque scelta fatta è una scelta sbagliata. La scelta della “non” maternità, appare, però, ancora di segno negativo, come se fosse meno libera e, quindi, quasi da giustificare (con la precarietà del lavoro, la mancanza di servizi per l’infanzia, la crisi economica ecc.). Ma qualsiasi scelta fatta avrà come conseguenza un senso di incompiuto [grassetto aggiunto].

No, imbecilli che per le virgole tirano i dadi. Ci sono anche persone che scelgono di non avere figli perché non li vogliono, e guess what? Non ci sentiamo affatto incompiuti per questo.

E’ [sic] utile ricordare che la “sessualità” non è un accessorio del nostro comportamento avulso ed enucleabile dalla funzione riproduttiva, a cui biologicamente è destinata.

Con tanti saluti alla comunità LGBT e a tutti quegli scienziati che si sgolano a spiegare che la sessualità umana avulsa ed enucleabile dalla funzione riproduttiva lo è eccome. Per inciso, mi sto ancora lambiccando il cervello per capire perché “sessualità” sia stato virgolettato. Qualche suggerimento?

Resistete, siamo in chiusura. Come ho detto non mi esprimo sulla validità delle strategie mediche individuate nel Piano; ma mi pare che i passi riportati dimostrino già ampiamente che dal punto di vista della comunicazione si sia mancato clamorosamente il bersaglio. E non basterà eventualmente “cambiare le cartoline”, come propone la ministra Lorenzin (a parte il fatto che sarebbe indice di sconcertante pressappochismo cambiare a cose fatte il contenuto di una campagna che si suppone essere stata approvata dopo ampie discussioni).

Se ci si fosse limitati a un documento più tecnico rivolto a operatori sanitari ed educatori ed eventualmente complementare a una strategia di supporto (economico, logistico…) alla genitorialità, probabilmente si sarebbe prodotto qualcosa di più valido. Invece il (condivisibile) intento di prevenzione è stato completamente nascosto dal disastro comunicativo di un messaggio antiquato, mal articolato, e in certi punti francamente offensivo; e non credo che cambiarlo a questo punto farà una gran differenza. Mettersi a correre non può compensare il fatto di essere partiti in una direzione decisamente sbagliata.

Mascolinità tossica: perché gli stereotipi di genere non danneggiano solo le donne

“Un vero uomo…” completate a piacere, tanto avrete sentito la frase abbastanza volte da poter sicuramente pensare a diverse caratteristiche che rendono un uomo “autentico”. Questo insieme di tratti tipici degli uomini veri™ è sorprendentemente ristretto, rigido, e dannoso, da cui il nome di toxic masculinity o mascolinità tossica che si usa sempre più spesso per definirlo. Ma che cos’è esattamente la mascolinità tossica? E soprattutto, perché esiste?

Si tratta innanzitutto di una struttura, una costruzione “that casts men in very narrow emotional, social, and physical roles, and punishes them severely if they step outside those boundaries”. Charlie Glickman, educatore e autore che tiene corsi sulla socializzazione maschile, chiama questa struttura la “Act Like a Man Box“, con l’accento proprio sull’azione: un’altra importante caratteristica da notare è appunto il fatto che la mascolinità sia una performance, una recita continua in cui gli uomini sono chiamati a provare ancora e ancora di essere “veri”. Infine, i rapporti di potere all’interno della struttura possono variare: “the Box is hierarchical as well as performative, […] so each guy has to compete with the others in order not to be the one who’s outside the Box. And as each one’s performance becomes more vigorous, it forces the others to do the same” (questo aiuta a spiegare perché, tra l’altro, molestie e aggressioni rischino di degenerare più rapidamente quando gli uomini coinvolti sono in gruppo anziché da soli).

Per decenni questo approccio ha garantito agli uomini una serie di vantaggi a danno di chi non fa parte del club, in primis le donne: “the masculine mystique promises men success, power and admiration from others if they embrace their supposedly natural competitive drives and reject all forms of dependence”. L’uomo vero™ ha successo con le donne – quindi si pone aggressivamente nei loro confronti e non accetta un “no”; l’uomo vero™ è ovviamente etero – quindi fa di tutto per allontanare i sospetti di omosessualità e non si fa scrupoli ad adottare atteggiamenti apertamente omofobi; l’uomo vero™ va in palestra, beve, e consuma prodotti “da uomo” – un’idea che i pubblicitari hanno al tempo stesso assecondato e alimentato (il cosiddetto manvertisement).

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Ora, gli eccessi a cui arrivano certi uomini nello sforzo di assicurare una performance convincente sono effettivamente un po’ ridicoli – date un’occhiata all’hashtag #MasculinitySoFragile su Twitter per una collezione di prodotti bislacchi tipo le candele al bacon (giuro) e relativi commenti. Il problema è che i danni a lungo termine che questa gara senza fine provoca sono estremamente seri – altrimenti non staremmo parlando di mascolinità tossica.

Socializzazione e mascolinità

È solo intorno al secondo/terzo anno di età che iniziamo a prendere pienamente coscienza del mondo che ci circonda e dell’esistenza dei ruoli di genere. Neonati e bambini presentano tratti quali vulnerabilità, tendenza a esteriorizzare il dolore (in primis con il pianto), bisogno di contatto fisico con altri esseri umani… che la nostra società associa con la femminilità. Fin da piccoli, quindi, i bambini vengono incoraggiati a “non fare la femminuccia”: non correre dalla mamma se si sono fatti male, non piangere, non esitare a reagire in maniera aggressiva durante eventuali litigi con altri bambini.

In maniera anche più preoccupante, genitori e adulti in generale tendono a vedere nei bambini anche piccolissimi tratti “tipici” del loro genere anche quando questi non esistono, e a comportarsi di conseguenza: in diversi studi si è riscontrato che i genitori di neonati “imagined baby boys to be bigger and generally ‘stronger’. When a group of 204 adults was shown a video of the same baby crying and given differing information about the baby’s sex, they judged the ‘female’ baby to be scared, while the ‘male’ baby was described as ‘angry'”. Il risultato? “Differences in perception create correlating differences in the kind of parental caregiving newborn babies receive […] From the moment of birth, boys are spoken to less than girls, comforted less, nurtured less”.

Questo approccio continua durante il resto dell’infanzia e nell’adolescenza, con conseguenze fortemente negative nel lungo periodo. L’uomo vero™ non si lamenta di stare male: gli uomini aspettano effettivamente più a lungo delle donne prima di vedere un medico quando ne hanno bisogno e sono meno propensi a cercare aiuto per depressione e altri problemi mentali, al punto che sempre più ricercatori identificano in questo il fattore principale della loro minore aspettativa di vita: “The 10 years of difference in longevity between men and women turns out to have little to do with genes. Men die early because they do not take care of themselves”.

Il vero uomo™ protegge la propria reputazione a ogni costo: in combinazione con l’essere socializzati a imporsi sugli altri, se necessario con il ricorso alla forza fisica, questo atteggiamento è il maggiore responsabile della violenza maschile. Nelle parole di James Gilligan, già direttore del Center for the Study of Violence di Harvard: “I have yet to see a serious act of [male] violence that was not provoked by the experience of feeling shamed and humiliated, disrespected and ridiculed, and that did not represent the attempt to prevent or undo that ‘loss of face'”.

Il vero uomo™ ha successo sul lavoro e mantiene la famiglia: questo stereotipo è ancora così saldamente radicato che uno studio del 2013 ha scoperto che le coppie in cui la moglie iniziava a guadagnare più del marito avevano più probabilità delle altre di divorziare; inoltre, gli uomini finanziariamente dipendenti dalla compagna sono cinque volte più propensi a tradirla rispetto a quelli che guadagnano le stesse somme.

Uno stereotipo è per sempre

Soprattutto l’ultimo esempio che abbiamo visto dimostra molto bene lo scollamento tra aspettative e realtà che si può verificare in periodi di cambiamento culturale, quando la società muta più velocemente delle norme e degli stereotipi che la permeano. Non è certo un caso che molti uomini si sentano frustrati: da un lato vengono ancora spinti a conformarsi a rigidi standard che li derubano di parte delle capacità emotive e li limitano nell’espressione di sé; dall’altro, le ricompense promesse per la conformità all’idea di “autentica” mascolinità stentano a materializzarsi, per una semplice ragione: quegli stessi atteggiamenti che prima li avvantaggiavano in qualsiasi situazione, adesso in certi contesti non sono più adeguati. Per esempio, “while the compliance and docility […] still hold women back from top leadership positions in business and politics, those same traits do get rewarded in school. And in a world where educational achievement increasingly outweighs gender in the job market, that at least gets women in the door”.

Questa frustrazione spesso viene reindirizzata contro le donne in generale e il femminismo in particolare. Contro le donne, perché vengono ritenute la causa ultima che spinge gli uomini a comportarsi in una determinata maniera: “One of the most perversely fascinating aspects of toxic masculinity is how often women get blamed for systems, standards and beliefs that men put into place” (si pensi per esempio al mito secondo cui “le donne preferiscono i cattivi ragazzi”).

Il femminismo diventa poi un bersaglio naturale per chi confonde la critica alla mascolinità tossica con quella agli uomini tout court e, invece che interrogarsi su come risolvere il problema, preferisce biasimare chi ha portato l’attenzione su di esso. Ironicamente, in realtà sono proprio le femministe ad avere degli uomini una visione molto più positiva di quella dello standard patriarcale dell’uomo vero™, una specie di ominide che non riesce a controllarsi quando vede un paio di gambe, si esprime a grugniti e non sa articolare altre emozioni oltre alla rabbia.

Quando si dice che il patriarcato non danneggia solo le donne è esattamente a fenomeni del genere che ci si riferisce: per usare la metafora descritta all’inizio, la “scatola” non crea problemi solo a quegli uomini che ne sono esclusi (p.e. perché gay), ma anche a quelli che devono costantemente dimostrare il proprio diritto a rimanerci dentro. Ed è sintomatico di quanto radicato sia il concetto di “uomo vero” il fatto che lo si tiri in ballo anche quando si vogliono evocare aspetti di mascolinità positiva, per esempio dicendo che chi mette le mani addosso a una donna non è un uomo, o che un vero uomo non si vergogna di mostrare i propri sentimenti.

L’intento di promuovere questi comportamenti è sicuramente lodevole, ma non fa che perpetuare l’idea che esistano determinati requisiti da osservare per qualificarsi come uomo. In altre parole, si limita a modificare il contenuto della scatola, quando invece dovremmo cercare di liberarcene tout court. Sicuramente non è facile ignorare i condizionamenti esterni, specie quando continuano in una certa misura a portare dei vantaggi; ma nel lungo periodo, come abbiamo visto, si eviterebbero problemi ben maggiori.

Poche idee e tutte confuse: Beatrice Lorenzin e le unioni civili

La nomina di Beatrice Lorenzin a Ministro della Salute aveva suscitato all’epoca non poche perplessità. Sarebbe forse ingeneroso fissarsi troppo sul fatto che la ministra abbia solo un diploma di maturità classica, visti anche i numerosi precedenti tra i titolari di dicasteri importanti. È vero però che la Lorenzin esperienza nel campo della sanità non ne aveva, e che i motivi per criticarla sul merito non sono mancati. Personalmente ho rivisto drasticamente al ribasso la mia opinione già non entusiasta a fine 2013, quando la ministra si è detta soddisfatta della relazione annuale sull’applicazione della 194, facendomi venire il dubbio che sugli occhi si fosse messa non le classiche fette ma direttamente un prosciutto intero. Suppongo che anche voi viviate nel mondo reale e non nella la la land dove la 194 verrebbe garantita in maniera efficace (Beatrix dixit), per cui non vi sto a spiegare dove e come (e quanto) sbagliasse. Né vale la pena di dilungarsi troppo sulla questione della prefazione a suo nome comparsa sul volume Elogio dell’omeopatia e poi ritirata in fretta e furia dopo le proteste del CICAP, non senza aver precisato che la prefazione stessa non era stata preventivamente autorizzata (mah).

Preferisco concentrarmi sul contributo di Beatrice al dibattito sulle unioni civili e in particolare sulla sua performance di qualche giorno fa in un videoforum organizzato da Repubblica. Il video dura poco più di mezz’ora ma se temete di non reggere non preoccupatevi, l’ho guardato per voi.

Si parte con un’introduzione volta a stabilire che Beatrice, bontà sua, non è affatto contraria alle unioni civili di per sé: il modello proposto dal DDL Cirinnà le va bene, perché “istituisce un istituto [bonjour Mme Lapalisse] diverso dal matrimonio”. Sottolineiamolo bene, in caso non si fosse capito: l’importante è non fare confusione tra il matrimonio, che è riservato alle persone serie, e le unioni civili. Però per carità, non saltatele subito addosso: è lei la prima a riconoscere che anche le coppie dello stesso sesso, “nel momento che si prendono un impegno”, hanno diritto a una certa serie di tutele (parentesi grammatical-stilistica: confesso di essere rimasta totalmente stregata dall’assoluta noncuranza con cui Beatrice mortifica il che relativo).

Qual è il problema allora? Secondo Bea, la legge non è stata scritta bene. Se fosse stata preparata meglio non ci sarebbe stato “l’equivoco” su stepchild adoption e adozioni gay. “Quale equivoco?”, starete pensando. L’uso di quell’oscuro termine inglese (mai fidarsi della perfida Albione) avrebbe permesso di nascondere quello che c’era nell’articolo 5, e che poi fortunatamente “si è scoperto” (testuale). Accidenti, e che mai si nasconde nell’articolo 5? Se lo leggi al contrario esce il demone del gender? Se lo avvicini a una candela scopri di aver sottoscritto in inchiostro simpatico l’acquisto di cento copie dell’Enciclopedia della Pastasciutta? Che diamine si nasconde nell’articolo 5?

Secondo la Lorenzin, un riconoscimento del diritto di accesso alla genitorialità e – rullo di tamburi – alla maternità surrogata. Lo so che state per dire che la GPA non c’entra una ceppa, ma siete duri di comprendonio. Per fortuna che c’è Beatrice a spiegarvi le cose: “La giurisprudenza non è un libro delle buone intenzioni [eh già], è dura lex sed lex [lo sappiamo che hai fatto il classico, Bea, tranquilla], nel momento che tu permetti [ecco, forse le elementari no]”, insomma al termine di questo sproloquio scopriamo che “il diavolo si nasconde nella grammatica [e se non altro ho capito perché la eviti come la peste] ma anche più nel diritto” [sarà in causa da anni con un vicino?].

Appurato che il vero significato dell’articolo 5 è permetterci di accedere alla maternità surrogata, la ministra procede a spiegarci di che cosa si tratti: “Digitiamo maternità surrogata in internet [non si digita “in internet”, Bea, ma lasciamo perdere] e vediamo che cosa esce [oddio, che cosa mai uscirà?], ci sono proprio i contratti”. Qui Bea tenta di spacciare per buone le sue personali stime sul ricorso alla GPA da parte di coppie etero e omosessuali, al che Laura Pertici si ribella e le fa presente che la stragrande maggioranza delle coppie interessate da questo discorso sono etero. Nessun problema, si batte in ritirata portando il discorso sul femminismo: “Ci siamo indignate su quello che viene fatto sul corpo delle donne per motivi religiosi [non so come mai ma ho il sospetto che tu non stia parlando dell’obiezione di coscienza sulla 194], sulla prostituzione [sex work, Bea… ma che te lo spiego a fare]” e insomma, si riesce a confondere le acque quel tanto che basta per riportare il discorso sul malefico articolo 5. La Pertici accenna timidamente che la questione della GPA andrebbe forse regolamentata, al che Bea le risponde beffarda che “Certo non lo può decidere una norma che invece dovrebbe fare un’altra cosa”. E su questo, sia detto, ha ragione da vendere: sarebbe come se la discussione di un DDL sulle unioni civili diventasse la scusa per parlare, che ne so, di piani di edilizia residenziale pubblica o di revisione dei criteri di assegnazione degli alloggi popolari. Oh wait.

Secondo Beatrice il vaso di Pandora dell’articolo 5 sarebbe anche inutile. Perché? Beh, perché per l’adozione del figlio del partner basterebbe fare ricorso al già esistente istituto dell’adozione speciale. E va detto, sottolinea la Lorenzin (mode Checco Zalone on), che quello delle adozioni è un tema “fortissimo”. Il nostro tema sono bambini e ragazzi, ripete tutta convinta. Io pensavo stessimo discutendo di unioni civili, ma evidentemente mi sbagliavo perché a Bea interessa parlare di tutto meno che di quello. E vai di utero in affitto.

Le viene fatto notare che in Canada e negli Stati Uniti la GPA è strettamente regolamentata ed è possibile anche come gesto altruistico. Macché, “nessuna lo fa gratis, lo fanno per pagarsi il mutuo [eh?]. Le faccio un esempio: in Russia [si parlava di Canada e Stati Uniti, Bea, ma pazienza. Immagino che tu abbia studiato geografia con Sarah Palin] ci sono questi contratti… e nel momento che il bambino nasce [ora la picchio con una matita blu]…”. Adesso tenetevi forte, perché “secondo la legge italiana le persone che sottoscrivono un contratto del genere non sono degne di fare i genitori”.

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Source: giphy.com

 

Lo sproloquio si conclude con un lapsus freudiano da manuale in cui Bea parla di “una famiglia normale, [con] un papà e una mamma”, e si apre quindi alle domande dei lettori. Si parte con la classica ipotetica “Che faresti se avessi un figlio gay e un giorno ti dicesse di voler adottare il figlio del suo partner?” (En passant: io detesto questo genere di domande. Non è che dobbiamo interessarci di una questione così importante come i diritti fondamentali solo quando la cosa ci tocca direttamente. Ma okay, andiamo avanti).

Risposta: “Lo aiuterei a vivere bene questa sua condizione [permettimi di avere qualche dubbio in proposito], questa sua scelta [ecco appunto. Bea, l’omosessualità non è una scelta. Le basi, su]… questa fragilità in più [a parte l’abilismo da quattro soldi: essere gay non è di per sé una “fragilità”. Lo diventa grazie a gente come te]. Io a mio figlio non gliel’ho negato di avere una mamma e un papà [e quindi? C’è un vincolo di mandato familiare?]”.

Le domande successive ci permettono di scoprire che “avere un figlio non è un diritto, spesso è un dono” [Ah, gli evergreen che non mancano mai. Non so, vuoi parlarci anche della scomparsa delle mezze stagioni?] e che “forse l’unico limite che possiamo porre adesso è se riteniamo importante che il bambino abbia sia la figura della mamma che quella del papà” [no, non ho capito nemmeno io]. Bea ci informa poi delle meraviglie che ha compiuto con la legge sull’eterologa, “perché nel momento che fai il ministro [ora piango], lo fai di tutti”; e del fatto che il tema qui “non è quello della discriminazione [ah no?], chi stiamo discriminando, le coppie, o stiamo discriminando i bambini, c’è un problema oggettivo dei minori o no? [Certo che c’è, Bea, ma non quello che vorresti farci credere tu]”.

“Noi stiamo parlando che [va bene, ci rinuncio] purtroppo per come è stata scritta la norma si parla soltanto del figlio naturale. Nessuno capiva che cos’era questa stepchild adoption, un po’ per il nome, anche a pronunciarlo è difficile [e dai Bea], un po’ perché la norma è abbastanza criptica [rimanda a un’altra legge, Bea, bastava andare a controllare che cosa dicesse quell’altra legge. Bastava “digitare in internet” per cinque secondi] e quindi bisogna essere un giurista [come te?]”. Stralciare la stepchild adoption per occuparsi della questione in una specifica legge creerebbe forse il rischio di dimenticarsi del tema, azzarda Laura Pertici. No no no, insorge Bea: “Se c’è la volontà politica si fa tutto”. E finalmente, quasi alla fine di questo estenuante videoforum, mi trovo d’accordo con la ministra.

Se ci fosse la volontà politica, sarebbe stato presentato un DDL sul matrimonio egualitario. Se ci fosse la volontà politica, non avremmo dovuto assistere a un ostruzionismo patetico e a dibattiti in aula vergognosi per contenuto e forma. Se ci fosse la volontà politica, l’Italia avrebbe raggiunto il resto del mondo occidentale da tempo. Peccato che questa volontà ce l’abbiano realmente in pochi, mentre gli altri continuano a tergiversare. Oppure, come la Lorenzin, pensano che “fare il ministro di tutti” voglia dire semplicemente imporre la propria visione al resto del mondo. Se per di più è una visione ristretta e disinformata come la sua, siamo a posto.

Pillole di discussione parlamentare sulle #unionicivili

(+ Bullshit Bingo!)

Il DDL Cirinnà è finalmente giunto all’esame del Senato, dove finora la discussione ci ha riservato notevoli perle di orrore e, per fortuna, anche qualche bell’intervento. Brevi riflessioni in ordine sparso:

Il senatore medio non sa di che cosa parla

Strali contro l’utero in affitto (che non è nel DDL), l'”adozione gay” tout court (che non è nel DDL), l’educazione “al gender” nelle scuole (che non è nel DDL), l’equiparazione “di fatto” al matrimonio (che, indovinate un po’…? Bravi: non è nel DDL): gli oppositori delle unioni civili hanno dimostrato di non conoscere per niente il contenuto del disegno di legge.

(…o finge di non saperlo)

Ovviamente pensando che questo valga per tutti coloro che hanno preso la parola peccheremmo di ingenuità: la gran parte di chi ha (stra)parlato contro le unioni civili sa benissimo che questo DDL non influirebbe in alcun modo sul divieto di GPA e sul regime delle adozioni “classiche”. Solo che non disponendo di alcuna obiezione sensata deve agitare spauracchi inesistenti ma di facile presa mediatica.

Il senatore medio non sa parlare

Non seguivo dibattiti in aula da parecchio tempo ed è stato impressionante constatare il livello di analfabetismo funzionale di certi parlamentari. Non mi soffermo sui tragicomici infortuni di chi si è cimentato con l’ostica (?) pronuncia di stepchild adoption, perché non mi piace vincere facile; ma non riuscire a leggere correttamente dai propri appunti e inciampare su qualsiasi parola di più di tre sillabe è inammissibile a partire dalla terza elementare. Considerando poi la difficoltà del legalese medio in cui sono redatti i testi discussi in Parlamento, c’è da avere seri dubbi sull’effettiva capacità dei nostri rappresentanti di comprendere a fondo quello che votano (e non parlo solo del DDL Cirinnà).

…ma ci prova lo stesso

Per qualche perverso meccanismo di compensazione, più la padronanza della lingua lascia a desiderare e più l’incauto senatore abbellisce il proprio intervento con citazioni auliche e riferimenti storico-biblici altisonanti: per cui tra un congiuntivo schiantato e un ardito neologismo (“problemosità”, “biosessuali”) sono stati tirati in ballo Adriano e Antinoo, Livio, Aldo Moro, Barack Obama, Roberto Benigni e Lorenzo Da Ponte. Per non parlare delle citazioni religiose che hanno spaziato dal Levitico a San Paolo, con gli immancabili riferimenti a Santi Padri assortiti e a un paio di porporati.

Girl power

Laura Bignami, Valeria Fedeli, Rosanna Filippin, Paola Nugnes, Manuela Repetti e ovviamente Monica Cirinnà: i migliori interventi in difesa del testo sulle unioni civili sono venuti da donne. Leggeteli, guardateli: è tempo ben speso.

Il prossimo round

La discussione in aula riprenderà il 9 febbraio e molto probabilmente ci saranno altri interventi simili a quelli che ci è toccato ascoltare finora. Come cercare di mitigare gli effetti sull’ulcera? Ovviamente è forte la tentazione di abbinare l’ascolto a un drinking game (se non sapete di che si tratta complimenti, siete persone virtuose: ora istruitevi qui); io invece propongo un più modesto (e morigerato) bullshit bingo di cui trovate la cartella qui sotto. Suggerimenti per migliorarlo sono bene accetti nei commenti.

unioni_civili_bullshit_bingo

Non è “solo” la rete: riflessioni sulla cyberviolenza

Per E., che si è confidata con me.

Non mi ha mai convinta fino in fondo l’idea di chiamarlo cyberbullismo: lo trovo un termine ingannevole, che resta associato nella testa di molti ad atti tutto sommato goliardici e legati alla fase adolescenziale, che ci lasciamo alle spalle una volta diventati adulti. Trovo che il termine inglese online abuse catturi meglio la natura più seria del fenomeno.

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Source: Reddit

Che si parli di bullismo o abuse, però, nell’immaginario collettivo fa ancora ben presa l’idea che quello che accade in rete alla rete rimanga confinato, tanto è vero che per indicare quello che succede offline di solito viene usato l’acronimo IRL (in real life). Eppure, ammesso che questo sia mai stato vero, non lo è più da tempo. Quando una persona diventa bersaglio di attacchi online, quel fiume di insulti può tracimare facilmente nel mondo “reale”, con conseguenze decisamente tangibili e spesso tragiche. Anche senza arrivare a gesti estremi, la vita “vera” può diventare decisamente difficile per le vittime di persecuzioni online. Nel 2014 un gruppo di associazioni statunitensi ha condotto un sondaggio su vittime di bullismo e molestie online: quasi il 30% degli intervistati ha detto di aver preso sul serio le minacce alla propria vita, e il 20% ha ammesso di avere paura di uscire di casa. Il problema è particolarmente sentito dalle donne, come ha spiegato molto bene la giornalista Amanda Hess nel resoconto delle minacce e offese di cui è stata ripetutamente bersaglio negli ultimi anni, con pesanti ripercussioni sulla vita personale e sul lavoro:

Abusers tend to operate anonymously, or under pseudonyms. But the women they target often write on professional platforms, under their given names, and in the context of their real lives. Victims don’t have the luxury of separating themselves from the crime. When it comes to online threats, “one person is feeling the reality of the Internet very viscerally: the person who is being threatened,” says Jurgenson [sociologo esperto di social media]. “It’s a lot easier for the person who made the threat—and the person who is investigating the threat—to believe that what’s happening on the Internet isn’t real” [grassetto aggiunto]

Va bene, si dirà, ma non tutte le situazioni sono così estreme. I casi in cui qualcuno ti odia talmente tanto per quello che hai scritto da simulare una finta presa di ostaggi e mandare una squadra SWAT a casa di tua madre restano fortunatamente pochi. Nella stragrande maggioranza dei casi, il vecchio detto “Don’t feed the trolls” resta valido.

Credo che questo possa ancora valere per i troll “tradizionali”, che hanno come scopo quello di disturbare gli scambi online senza l’intento di nuocere direttamente alle persone con cui si trovano a interagire. Ma qui parliamo di comportamenti ben più gravi: la ricercatrice Emma Jane “refuses to use the word ‘trolling’ to describe this behaviour when it starts online; she calls it cyberviolence, acknowledging its tacit relationship with the violence its language justifies”. E se anche la violenza verbale in rete non viene messa in pratica offline, questo non giustifica il fatto di tollerarla o rassegnarcisi: i social network, le sezioni commenti delle pubblicazioni online, i forum di discussione… sono e restano spazi pubblici, e come tali soggetti alle regole basilari di convivenza. Offendere o minacciare una persona non è accettabile nel mondo fisico e inaccettabile resta anche in quello virtuale.

Nel caso di internet, poi, c’è per così dire un’aggravante: “The promise of the early internet was that it would liberate us from our bodies, and all the oppressions associated with prejudice. We’d communicate soul to soul, and get to know each other as people, rather than judging each other based on gender or race [grassetto aggiunto]”. Per chi è già vittima di bullismo e discriminazione offline è anche peggio vedere riprodotte quelle stesse dinamiche nello spazio virtuale in cui ognuno, in teoria, può essere ciò che vuole e dimenticare o nascondere ciò che lo rende “diverso” e isolato nella vita di tutti i giorni.

Chi sono i “cattivi” dall’altra parte dello schermo? È dimostrato che certi tratti negativi della personalità (tendenza alla manipolazione, narcisismo, mancanza di empatia, sadismo) sono positivamente correlati con comportamenti abusivi online. Tuttavia credo che sarebbe sbagliato dedurne che chiunque insulti e perseguiti una persona in rete sia uno psicopatico, e non solo perché statisticamente improbabile; ma soprattutto perché continuare a pensare che dietro a certe tastiere possa esserci solo un disadattato che vive nel seminterrato dei suoi genitori e seziona gattini prima di andare a dormire ci impedisce di riconoscere che anche noi, noi persone “normali” e ben inserite nella società, possiamo essere parte del problema. O che possano esserlo i nostri amici, colleghi e familiari. Del resto basta seguire le discussioni che si scatenano in certe occasioni per constatare che neanche le “brave persone” si fanno troppe remore a lasciarsi andare a commenti di una violenza incredibile. Perché accade questo?

There’s no point in blaming the internet for this. All the technology has done is to reveal a deeply unpleasant truth: when you remove the social constraints on behaviour that operate in the offline world, then a darker side of human nature emerges snarling into the light.

Spesso tendiamo a confondere l’assenza delle social constraints con l’anonimato che la rete ci può garantire. Tuttavia, pur se le due cose sono strettamente collegate, quello che davvero incoraggia la violenza online è la mancanza di accountability. Il termine, che sarà familiare agli scienziati politici, indica un principio di responsabilità e potrebbe essere tradotto grosso modo come “(essere chiamati a) rispondere delle proprie azioni”. Moltissime delle persone che ricoprono di insulti personaggi pubblici e non sono felici di farlo mettendoci la faccia e il proprio nome: ma che succederebbe se gli venisse davvero chiesto conto di quello che hanno scritto? Il progetto brasiliano Racismo virtual, consequências reais si propone di fare esattamente questo: gli attivisti impegnati nella campagna rintracciano chi abbia postato commenti razzisti su Facebook e riportano il contenuto di questi su cartelloni pubblicitari nel quartiere dove abita la persona in questione, dopo averne pixelato nome e volto. L’idea infatti non è quella di mettere il “colpevole” alla gogna, bensì di mostrare come azioni virtuali possano avere conseguenze decisamente tangibili. Lo hanno scoperto a proprie spese anche l’uomo che ha insultato la giornalista Clementine Ford sulla di lei pagina Facebook ed è stato licenziato dopo che il post era stato inoltrato ai suoi datori di lavoro; e i due inglesi condannati a una pena in carcere dopo aver minacciato via Twitter l’autrice e attivista Caroline Criado-Perez.

Basterà questo a risolvere la situazione? Ovviamente no. Non possiamo tutti trasformarci in giustizieri del web, e in molti casi è tanto più semplice limitarsi a bloccare i molestatori, laddove sia possibile, e/o ignorarli. Le varie piattaforme online stanno prendendo coscienza delle dimensioni del problema e, con tempi di risposta differenti, anche diversi Paesi si stanno rendendo conto della necessità di darsi strumenti per affrontare soprattutto i risvolti penali della violenza online; ma non ci possiamo aspettare che l’intervento “dall’alto” elimini completamente il fenomeno.

C’è anche un altro motivo per cui agire solo a livello della rete non ha senso, e cioè il fatto che la violenza online di solito non inventa ma riproduce schemi importati nel mondo virtuale da quello fisico: quando una donna viene sommersa di commenti osceni il problema di base sta nel sessismo e nella misoginia, non in internet; e quando a una persona di colore si dà della scimmia o un omosessuale viene pesantemente insultato, il problema di base sta nel razzismo e nell’omofobia, non nell’anonimato online.

Il quadro non è dei più confortanti, lo so (c’è un motivo se questo post non l’ho intitolato “Raggio di sole”). Credo però che il fatto stesso che del problema si parli sempre di più e che le reazioni comincino ad arrivare siano segnali positivi. Credo anche che dobbiamo sforzarci di inquadrare correttamente la situazione: consigliare semplicemente a una vittima di bullismo o violenza online “Ignorali e andranno via” serve forse a darci la sensazione di essere stati utili, ma è una falsa soluzione. Non è compito di chi viene aggredito cercare di evitare di diventare un bersaglio. La responsabilità resta di chi, per un motivo o per l’altro, sceglie di aggredire. E, online come offline, è chi non rispetta le regole che dovrebbe cambiare modo di fare. Oppure andarsene.

Unioni civili e “liste di proscrizione”: breve riflessione in tre tempi

1. Prologo

Il 13 gennaio Gay.it ha pubblicato nomi e recapiti pubblici di un gruppo di senatori PD che sarebbero pronti a votare contro il DDL Cirinnà presentato dal loro stesso partito se le norme sull’adozione del figlio del partner non verranno stralciate. Per questa iniziativa si è parlato di liste di proscrizione e i redattori del sito si sono beccati degli squadristi.

2. Svolgimento

Forse i parlamentari in questione, come immagino i loro colleghi di altra casacca, si sono abituati a dover rispondere solo alle rispettive segreterie invece che agli elettori (thanks, liste bloccate). Mi duole doverli risvegliare bruscamente, ma la democrazia parlamentare nel mondo occidentale funziona anche così: del resto, se il tuo elettore non ti segue durante il mandato, come fa a decidere se rinnovartelo? No, non tirate fuori il divieto di mandato imperativo: l’Art. 67 della Costituzione esclude un impegno giuridicamente vincolante del parlamentare nei confronti degli elettori, e un diritto di revoca da parte di questi a mandato in corso (recall). La responsabilità politica, quella resta tutta.

In quanto al fornire i contatti dei parlamentari in questione e invitare i cittadini a farsi sentire: ne ho già scritto, l’attività di lobbying è parte integrante del gioco politico e se fatta secondo le regole è giusto che sia così. I cittadini hanno tutto il diritto di associarsi per cercare di influenzare un determinato procedimento legislativo; tanto è vero che gli oppositori delle unioni civili hanno lanciato giusto la settimana scorsa una serie di iniziative (alcune delle quali, come “l’ora di preghiera”, decisamente discutibili), incluso l’invito a contattare i parlamentari per invitarli a non votare il DDL.

3. Conclusione

Che i rappresentanti dei cittadini si rassegnino, quello di seguirli nella loro attività legislativa e di contattarli per manifestare scontento (o appoggio) resta un nostro diritto. Nel caso delle unioni civili poi bisognerebbe avere il buon gusto di tacere, se non altro per senso della decenza: dopo aver tergiversato e giocato sulla pelle delle persone per un tempo oggettivamente inconcepibile, lamentarsi se qualcuno osa protestare è ridicolo e inaccettabile. Invece di farci distrarre dal dito delle “liste di proscrizione”, faremmo meglio a concentrarci sulla luna di quei diritti che sembrano ancora appartenere a un’altra galassia.

Smettiamola di minimizzare: quelle di Tavecchio non sono gaffe

Ogni volta che apre bocca, il presidente della FIGC Carlo Tavecchio fa danno. Non c’è minoranza che non abbia offeso, simbolico negozio di porcellana dove non abbia compiuto devastazioni.

Ripercorrere l’elenco delle sue infelicissime uscite sarebbe inutile, ma credo valga la pena di riflettere brevemente sul modo in cui vengono accolte – oltre che, ovviamente, con sacrosanta indignazione.

Il termine più usato dai media italiani per descrivere le esternazioni di Tavecchio è senza dubbio “gaffe”. Secondo la Treccani, una gaffe è un atto commesso “per goffaggine, inesperienza o anche semplice distrazione” che crea imbarazzo in chi vi assiste. Ecco, io non sono sicura che quello che esce dalla bocca di Tavecchio si possa derubricare a gaffe. Quando parlò di calciatrici “handicappate” rispetto ai colleghi uomini o di giocatori africani “mangiabanane”, lo fece da dirigente di Federcalcio con una carriera trentennale e quelle frasi non erano dettate da goffaggine o inesperienza: erano il linguaggio che è evidentemente abituato a utilizzare da una vita. E credo che sia troppo comodo minimizzare queste dichiarazioni definendole scivoloni: il fatto stesso che si ripetano puntualmente indica che siano spie del suo modo consueto di pensare, non incidenti linguistici.

Carlo Tavecchio ha 72 anni. Si potrebbe essere tentati di giustificarlo almeno in parte come prodotto del suo tempo. Uno cresce in un mondo libero dalla dittatura del politically correct (attenzione, sarcasmo) e poi un bel giorno scopre di non poter più dare impunemente dell’ebreaccio o della lesbica a qualcuno. Poverino, lo capisco. Tutti i punti di riferimento spazzati via.

A chi usa questo argomento però sfugge una cosa: tutti noi, crescendo, aggiorniamo le nostre idee e ci liberiamo di credenze e atteggiamenti che erano perfettamente accettabili quando eravamo piccoli e ignoranti, ma non più una volta adulti. Tutti noi abbiamo creduto a Babbo Natale, ma troveremmo perlomeno strano pretendere di continuare a farlo per il resto della nostra vita, semplicemente perché lo facevamo senza problemi quando avevamo quattro anni.

Diventare adulti significa anche capire quali delle nostre idee siano sbagliate e vadano lasciate indietro e questo processo, se magari rallenta con l’età, non può mai considerarsi concluso. Non esiste un livello adulto che completa il gioco oltre il quale non resta più nulla da imparare. E se un settantenne è considerato in grado di gestire la Federazione di uno sport popolarissimo con un indotto decisamente importante, allora deve anche essere in grado di aggiornare un paio delle sue idee sul mondo, e imparare a trattare tutti con il rispetto che meritano. Altrimenti può sempre accomodarsi all’uscita.

Teorie di genere: chi fa davvero male ai bambini?

Chiunque si sia trovato in una discussione con qualcuno che si oppone al DDL Cirinnà e più in generale a qualsiasi iniziativa di educazione al rispetto della diversità sa che a un certo punto l’interlocutore tirerà fuori una non meglio precisata preoccupazione “per i bambini”, che nelle sue intenzioni dovrebbe equivalere a una vittoria per KO tecnico.

Non mi dilungo sul perché questa sia una mossa problematica sotto parecchi punti di vista. In sintesi: strumentalizza i bambini stessi; non fornisce alcun elemento logico di supporto alle tesi “anti-gender”; e soprattutto, come spiegato molto bene da Stefano Paolo Giussani, è fondamentalmente omofoba:

Poter tollerare qualcosa per sé ma non poterlo tollerare per i bambini esprime esattamente la misura della propria intolleranza. Come dire: “Io sono grande, adulto e vaccinato, posso resistere alle tante cose sbagliate che vedo nel mondo ma non accetto che non si proteggano gli indifesi”. L’equazione è scontata: l’omosessualità resta qualcosa percepita come sbagliata, innaturale, da nascondere.

Mi sono chiesta però: che succede se questa affermazione la esaminiamo nel merito? Se intendiamo in buona fede proteggere i bambini, qual è davvero la posizione più dannosa che si possa prendere?

Il pensiamo-ai-bambini si articola fondamentalmente sull’idea che i suddetti debbano crescere in una famiglia con due genitori dai ruoli di genere ben distinti, in maniera da apprendere “senza confusione” i comportamenti che dovranno poi replicare una volta adulti. Fin qui niente di sconvolgente: è ampiamente accettata in sociologia l’idea che la famiglia sia un importante elemento nel processo di socializzazione del bambino. Il problema sta nel fatto che, per gli “anti-gender”, questi ruoli di genere e comportamenti a essi associati sarebbero fissi perché determinati biologicamente o, se preferite, “naturalmente”. Perciò qualsiasi comportamento che da essi si allontani va condannato con fermezza in quanto innaturale e potenzialmente dannoso.

Non è necessario ripetere in dettaglio quello che è già stato spiegato molto bene in decine di libri e articoli, vale a dire che il genere è un costrutto sociale dipendente dall’impostazione culturale di una determinata società, e non una realtà biologicamente prefissata e per questo immutabile. Mi soffermo invece sui risultati di uno studio che trovo particolarmente interessante perché incentrato su uno degli esempi più classici quando si parla di differenze di genere: l’idea che le bambine siano “naturalmente” attratte dal colore rosa, che ai bambini invece non piacerebbe sempre per predisposizione “naturale”.

I soggetti partecipanti allo studio, di età compresa tra i sette mesi e i cinque anni, si sono visti offrire due coppie di oggetti identici, uno rosa e l’altro arancione, blu, giallo o verde. Fino ai due anni non c’era alcuna differenza tra bambini e bambine nella frequenza con cui il rosa veniva preferito agli altri colori. Tuttavia, nella seconda metà del secondo anno di vita si verificava una notevole divergenza: le bambine iniziavano a preferire il rosa a tutti gli altri colori, e allo stesso tempo i bambini iniziavano a evitarlo.

Perché questo cambiamento? Il fatto è che fra i due e i tre anni iniziamo ad acquisire informazioni su noi stessi e il mondo che ci circonda, incluse le differenze di genere. Attraverso un processo di osservazione e imitazione impariamo anche di appartenere a uno di due sessi, per ciascuno dei quali esistono comportamenti attesi. La nostra costruzione dell’identità di genere passa anche attraverso l’acquisizione di preferenze tradizionalmente associate al sesso cui siamo stati assegnati e il rifiuto di quelle preferenze che sono invece associate al sesso opposto. Nel caso dei colori, una volta imparato che il rosa è un colore “da femminucce”, le bambine tendono a sceglierlo più di altri colori, mentre i maschi tendono a evitarlo esattamente per lo stesso motivo.

Come accennato, i ruoli di genere dipendono dalla cultura di una data società e sono quindi soggetti a cambiamenti; per restare in argomento, il rosa ha cominciato a essere associato esclusivamente al sesso femminile solo all’inizio del XX secolo. È quindi ovvio (o dovrebbe esserlo) che non si possa sostenere l’esistenza di atteggiamenti e gusti “naturalmente” maschili o femminili, o che l’allontanarsene sia innaturale o dannoso.

Questo di per sé è già sufficiente a provocare gli alti lai dei paladini dei piccoli. Figuriamoci quindi come potrebbero sentirsi scoprendo i risultati di un altro studio, questa volta incentrato su soggetti con gender atypical behaviour (GAB). Si definisce GAB il comportamento di quei bambini che preferiscono svolgere attività tipicamente associate con il sesso opposto a quello a cui appartengono. Studi precedenti avevano riscontrato che molti bambini con GAB presentavano in età adulta sintomi psicologici di vario tipo, e ipotizzato che questo fosse dovuto allo stress provocato dalle pressioni dell’ambiente esterno a conformarsi. La ricerca in oggetto ha riscontrato che lo stile genitoriale gioca un ruolo molto importante, e che i bambini i cui genitori scoraggiavano fermamente comportamenti atipici erano più a rischio di sviluppare e mantenere problemi psicologici:

[P]arenting style significantly moderated the association between childhood GAB and adult psychiatric symptoms with positive parenting reducing the association and negative parenting sustaining it […] Positive parenting could help normalize circumstances surrounding GAB children, i.e. by helping the child and the environment to accept atypical behavior.

In altri termini: non è l’essere “diversi” che ci danneggia, ma l’essere puniti per tale diversità. Se un bambino adotta comportamenti tipici del sesso opposto la cosa peggiore che si possa fare è stigmatizzare la cosa e obbligarlo a svolgere attività ritenute più consone. Il ruolo dei genitori è fondamentale nel guidare il processo di (auto)-accettazione, riducendo così il rischio di strascichi in età adulta.

Tiriamo le somme? Cari genitori preoccupati, la diversità non è una minaccia e vedere esempi di comportamenti lontani dai ruoli di genere standard non fa male a nessuno. Se davvero volete muovervi nell’interesse dei vostri figli, insegnare il rispetto è infinitamente meglio che imporre conformismo. Anche perché non è detto che la diversità da rispettare, alla fine, non sia proprio la loro.