Il consenso, questo sconosciuto. O no?

Questo non è un post su commissione, ma quasi; nel senso che dopo la recente sentenza della Cassazione sull’applicabilità o meno di una determinata aggravante in un caso di stupro si è tornato a discutere dell’inadeguatezza della legge italiana sulla violenza sessuale, soprattutto per quanto riguarda il concetto di consenso. Una persona che seguo su Twitter mi ha chiesto se avessi mai scritto un post in proposito e mi sono resa conto che, pur avendone accennato, non ne avevo mai parlato in dettaglio sul blog; quindi grazie a Renzo per avermici fatto pensare (nel tono della professoressa di latino a cui il secchione del primo banco ha appena fatto notare che quella versione l’ha già data per compito la settimana scorsa).

E dunque, il consenso. Questo concetto apparentemente banale che distingue un rapporto sessuale da uno stupro, e che nel momento in cui ho messo mano alla tastiera mi ha fatto pensare a quello che S. Agostino diceva del tempo (non nel senso di meteo), perché nel momento in cui inizi a pensarci attentamente ti rendi conto che no, non è poi così banale.

Tanto per cominciare, non siamo neppure d’accordo su come si debba esprimerlo: nella prima fase delle campagne contro la violenza sessuale si è posto l’accento sul modello “negativo”, quello del “No significa no”; ma i critici di questo approccio hanno fatto notare che di fatto può essere interpretato come silenzio-assenso, un’idea particolarmente pericolosa in tutti quei casi in cui una delle persone coinvolte non sia in grado di esprimere chiaramente un no. Quando si menziona questo problema la maggior parte di noi pensa immediatamente al caso della persona ubriaca o drogata, ma gli avvenimenti del 2017 e il movimento #MeToo hanno fornito un ampio campionario di casi ugualmente problematici ma che finora avevamo quasi sempre relegato alla zona grigia del “Difficile decidere”. Mi riferisco ai casi in cui la vittima di molestie o stupro si trova nella posizione di dipendere lavorativamente e/o economicamente da chi abusa di lei o in cui, anche senza un chiaro legame economico, una delle parti è in una formale posizione di sottomissione all’altra. La legge italiana, inadeguata quanto si vuole, se non altro riconosce (timidamente) le possibili implicazioni di una situazione del genere nel disciplinare l’età del consenso, che sale da 14 a 16 anni qualora il partner del minore ricopra un ruolo che gli permetta di esercitare un certo ascendente nei suoi confronti, p.e. quando ne è l’insegnante.

A ben vedere però anche in questi casi non solo un no può rivelarsi estremamente difficile o del tutto impossibile da esprimere: non è facilissmo neanche essere certi al cento per cento che un sì sia effettivamente libero e convinto. Anche per questo motivo una certa parte del movimento femminista ha supportato l’adozione del modello di consenso c.d. “entusiasta“, in cui un sì non è necessariamente un valido indicatore di assenso a meno che non sia espresso in un certo modo. Neppure questo modello è esente da critiche (soprattutto da parte dei/delle sex worker), ma credo si possa dire che abbiamo raggiunto se non altro un accordo sui fondamentali: il consenso dev’essere validamente e liberamente espresso.

Tutto a posto quindi? Nemmeno per sogno (credo di averlo già scritto, c’è un motivo se questo blog non l’ho chiamato Raggi di sole); perché se da un lato c’è qualcuno che deve dare il proprio consenso, dall’altro c’è qualcuno che lo deve ricevere, capire, e rispettare: ed è qui in realtà che i problemi cominciano.

È sorprendente e preoccupante constatare quanti uomini sostengano ancora di non essere in grado di capire quando una donna sta dicendo di no. In parte questo è il risultato di condizionamenti culturali, come il mito dell’impossibilità di capire che cosa pensino veramente quelle strane creature che in fondo rappresentano soltanto metà del genere umano; il sistema asimmetrico di potere che rende difficile quando non addirittura pericoloso per una donna rifiutare un’avance in determinate circostanze, costringendoci a fingere per mascherare la sensazione di disagio quando veniamo infastidite (un buon thread in proposito qui); e l’idea dura a morire che ai ruoli di genere corrispondano precisi compiti nell’iniziare un approccio romantico, con l’uomo a inseguire e la donna a rifiutarsi almeno in un primo momento, perché a cedere subito sembrerebbe “una facile”. L’ovvia conseguenza è che un uomo si senta non solo autorizzato ma in qualche modo incoraggiato a ignorare un no; ed è qui che nasce a mio avviso quella profonda incomprensione che ha portato molti uomini, all’apice della discussione su #MeToo, a lamentarsi che ormai non si può più neanche flirtare: perché mentre le donne in generale tendono a interpretare il flirt come un tastare il terreno con una persona con cui è assodato esserci reciproco interesse, molti uomini lo vedono come il processo per convincere una donna non interessata che in realtà no, dai, non lo sai ancora ma ti piaccio.

Parlando specificamente di sesso, c’è un’ulteriore dimensione da considerare, ovvero l’idea che la comunicazione soprattutto verbale sia in qualche modo in antitesi con l’erotismo; o che, per dirla in maniera raffinata, un continuo blablabla te lo faccia ammosciare. Ora, è verissimo che una sessione di attività ginnica da camera non sia il momento migliore per dimostrare di avere una memoria prodigiosa recitando le vite dei filosofi uzbeki del XVI secolo; ma il sesso della vita reale non è quello da film in cui magicamente il lui e la lei di turno si strappano i vestiti di dosso, piombano sul letto, si rivoltano per un po’ e hanno orgasmi simultanei senza mai pronunciare una sola parola. Nella vita reale un minimo di comunicazione logistica è necessario e assicurarsi che la/e persona/e con cui ci si sta divertendo si stia/no, appunto, ancora divertendo fa parte di questa comunicazione di base. Sottolineo l’ancora perché un ulteriore aspetto del concetto di consenso che trovo non venga discusso abbastanza è che non viene espresso liberamente e validamente una volta per tutte, ma può essere ritirato in qualsiasi momento. Uno dei migliori riassunti del dibattito che abbia mai letto partiva proprio da questo punto e diceva più o meno: “Prova a infilargli un dito su per il cxxo senza preavviso mentre lo state facendo e noterai che capisce benissimo che cosa significhi ritirare il consenso”.

Anche in una sfera tanto privata come quella sessuale ovviamente scontiamo il peso di una marea di condizionamenti socio-culturali: le donne spesso sono riluttanti a dare indicazioni esplicite su ciò che (non) ci piace, in parte perché lo slut shaming è sempre dietro l’angolo e in parte perché ci viene inculcato che uno dei nostri compiti a letto è rassicurare il partner sulla sua prestazione (vedasi anche alla voce simulazione dell’orgasmo). Chiaro che la cosa non incoraggia un franco “Questo non mi piace, fermiamoci un attimo”.

Ciò detto, resto del parere che non diventiamo misteriosamente incapaci di comunicare in maniera selettiva e che in generale gli uomini siano perfettamente in grado di essere proattivi, verificare il consenso di una donna a ogni stadio dell’interazione, e rispettare l’eventuale scelta di sospenderlo. Il che ci lascia ovviamente a concludere che chi molesta o stupra non lo fa perché ha male interpretato un messaggio, ma perché lo ha ignorato, e questo vale anche per la famosa zona grigia degli atteggiamenti “male interpretati”: per esempio, gli uomini che si lamentano di avere paura di fare “un innocuo complimento” a una collega sanno capire benissimo se quel complimento è effettivamente tale o meno. Basta chiedergli se lo farebbero anche a un uomo.

Ci sono speranze? L’ottimista in me (sì, ce n’è una, anche se ben nascosta) direbbe che ne abbiamo eccome: in fondo è quasi tutta questione di educazione e i risultati ottenuti da quei Paesi che hanno introdotto un esauriente curriculum di educazione sessuale e alle relazioni sono alquanto incoraggianti. Ma guardando al desolante panorama politico italiano di questo periodo non ho molte ragioni per essere ottimista, perché dal tono e dal contenuto del dibattito è chiaro che ci stiamo muovendo praticamente nella direzione opposta a quella in cui dovremmo andare. Se progresso ci sarà, non sarà per mano di chi avrebbe i mezzi per accelerarlo e sostenerlo dall’alto, ma verrà dal basso; e tutti noi dobbiamo cercare di fare la nostra parte.

Femminismo (puntini sulle i)

Anche quest’anno per l’otto marzo avrei potuto propinarvi uno dei miei post classici – dopotutto non è che manchino gli argomenti quando si parla di diritti delle donne; ma ultimamente il modo in cui affrontiamo questo discorso in generale mi rende sempre più insofferente. Per cui invece del post ragionato e documentato, mi spiace, vi beccate lo sfogo.

Sono sempre stata una grande sostenitrice dell’idea che si dovrebbe parlare solo di ciò che si conosce almeno un minimo; dell’idea che nessuno ha diritto alla propria opinione punto, bensì a un’opinione informata. Salvo improvvise conversioni sulla via di Damasco, su questo blog non troverete mai post che trattano di fisica quantistica, uncinetto, cricket, cucina congolese o musica tibetana, per una ragione semplicissima: non ne so una beata ceppa.

Il femminismo è allo stesso tempo un’ideologia e un movimento politico-sociale: come tutte le ideologie, come tutti i movimenti, non è monolitico ma sfaccettato e complesso. La voluta incomprensione del pensiero e delle rivendicazioni femministe da parte di chi vi si oppone è vecchia quanto il movimento stesso, e non c’è da stupirsene. Quello dello straw man è un giochino retorico piuttosto comodo usato in un gran numero di discussioni a proposito degli argomenti più disparati, non solo nel dibattito sul femminismo.

Quello a cui mi rendo conto di essere sempre più intollerante, invece, sono la pigrizia e la superficialità di chi di femminismo parla senza cognizione di causa; e sono tantissimi. A ben vedere è significativo il fatto stesso che questo accada – come dice il nome stesso, è roba da donne, quindi non può essere granché complicata e chiunque può dire la sua. Oltretutto è risaputo che da sole non sapremmo trovare nemmeno l’acqua in mare, per cui ben vengano quegli uomini così volenterosi da aiutarci a farlo funzionare, questo femminismo (nota: non sto dicendo che gli uomini non abbiano spazio alcuno nel movimento femminista. È anche questo un discorso complesso che merita un post dedicato).

Cari parlatori-di-femminismo-a-vanvera, ho una brutta notizia per voi: la vostra opinione non serve a niente e non interessa a nessuno. Se non avete ben chiara nemmeno la distinzione tra prima, seconda e terza ondata, se non conoscete la differenza tra feminism e womanism, se non sapete citare neppure un paio di autrici femministe senza usare Google e soprattutto se non le avete mai lette… tacete. Insistendo per darci il vostro punto di vista su argomenti su cui siete completamente disinformati, non solo non aggiungete nulla di nuovo o utile al dibattito; ma contribuite anche a creare un fastidiosissimo rumore di fondo che disturba la discussione e toglie spazio a voci già abbastanza marginalizzate.

Adesso la buona notizia: questo stato di cose non è permanente. Se volete imparare qualcosa sul femminismo ci sono tonnellate di articoli, libri, blog e risorse varie, moltissime delle quali accessibili gratuitamente. Un suggerimento per iniziare: l’interessante percorso di lettura sul femminismo postato qualche tempo fa da Laura Mango (meglio nota come La Giovane Libraia dell’omonimo blog). Buona Giornata della Donna.

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(Source: nerdyfeminist.com)

“Troppe donne”: tragicomiche proposte sulla parità di genere

Stamattina La Stampa ha lanciato la rubrica “È sempre l’8 marzo”, che si propone di esplorare temi legati alla parità di genere, immagino sulla falsariga del tremendo “La 27a ora” del Corriere. L’idea di per sé mi pare interessante, ragion per cui mi fiondo subito sui primissimi articoli, e vado a cascare su un pezzo a firma Francesca Sforza, intitolato “Nella scuola italiana ci sono troppe donne!” (per la serie: l’importante è partire bene). Siccome non ho ancora capito che da quello che promette bile devo girare alla larga, me lo sono letta tutto; per fortuna non è lungo e può essere commentato in toto. Tenetevi forte.

C’è sempre qualcosa che non funziona nelle situazioni lavorative in cui un genere prevale sull’altro in modo numericamente prepotente. Si creano squilibri, dissesti e danni nel lungo termine.

Su questo siamo d’accordissimo. E immagino che in una rubrica sulla parità di genere sarà facile trovare un buon esempio di un settore a netta preponderanza maschile.

Immaginate un ambiente di lavoro in cui un solo genere occupa dall’82 al 96 per cento dei posti di lavoro disponibili. [Non ho bisogno di immaginarlo, Francesca. Lo vedo già tutti i giorni]. Vogliamo dirlo forte e chiaro?  [Sì, sì, diciamolo forte e chiaro: è uno scandalo]. Nella scuola italiana ci sono troppe donne. [Quello “sbonk” è la mia mascella che impatta il pavimento]. La peculiarità dell’eccessiva femminilizzazione si concentra negli anni della materna e della primaria, continua nella scuola secondaria (dove le donne occupano un buon 65 per cento delle cattedre) per poi diradare negli insegnamenti universitari, dove le percentuali si rovesciano bruscamente, tanto che in un ateneo nobile come quello della Normale di Pisa hanno dovuto modificare il regolamento interno per far entrare qualche donna (“una situazione davvero imbarazzante”, l’aveva definita il rettore).

Okay, cerchiamo di mettere un paio di puntini sulle i. Questa “eccessiva femminilizzazione” non è una peculiarità piovuta da chissà dove, è il risultato di un’evoluzione storica ben precisa. Agli albori della scuola italiana i maestri erano in maggioranza uomini, poi la carriera scolastica è stata una delle (poche) concesse alle donne che volevano lavorare. L’accesso all’università è un altro discorso. Qui si comincia a fare sul serio, l’università non è roba da donne: troppo complessa, troppo intensiva. E poi ce le vedi a sopravvivere in una facoltà di fisica o di ingegneria, con tutta quella matematica? Per carità.

Le cause sono note: stipendi inadeguati, scarso appeal sociale, ridotte possibilità di avanzamenti di carriera, soddisfazioni e riconoscimenti relegati all’ambito della propria coscienza o comunque iscrivibili nella categoria del fatto privato.

Le cause saranno anche note, ma da come sono descritte qui non sembra. Perché detta così sembra che gli stipendi nella scuola dell’obbligo siano bassi per caso, e che noi donne, cretine, ci ostiniamo a scegliere professioni che pagano poco. Il fatto è che il rapporto di causa-effetto qui ha funzionato esattamente al contrario. Finché a farlo erano soprattutto uomini, il lavoro di maestro aveva un salario dignitoso: ma dal momento che molte delle prime donne a farlo portavano a casa il secondo stipendio della famiglia, ecco che fin dall’inizio sono state pagate meno dei loro colleghi, perché di paga uguale apparentemente non avevano bisogno. Segue circolo vizioso reclutamento donne che si possono pagare meno – stipendi che restano mediamente bassi – fuga degli uomini verso settori più remunerativi – salario insegnanti che resta inchiodato a livelli poco attraenti.

Ma a essere più preoccupanti sono forse gli effetti: che cosa succede a lungo andare in una società in cui i modelli cognitivi e la trasmissione del sapere avviene in modo tanto unidirezionale?

Tralasciamo il fatto che con doppio soggetto il verbo va al plurale. La domanda qui è: ma che accidenti stai dicendo?

Si è ragionato abbastanza sulle conseguenze di un maternage che si prolunga ben oltre gli anni del nido e dell’asilo, spingendosi fino alle elementari e spesso anche per il ciclo delle medie? Capita spesso, soprattutto alle madri dei maschi, di sentirsi dire che “il bambino è irrequieto, non sa stare fermo, si muove in continuazione”, e si trascura il fatto che – a differenza delle bambine, per le quali stare sedute a disegnare e ritagliare non rappresenta uno sforzo, ma una condizione piuttosto naturale – in molti casi i maschi hanno bisogno di un approccio più fisico alle cose, soprattutto nelle fasi del primo apprendimento.

Gira che ti rigira sempre lì andiamo a cascare, sulla presunta differenza di comportamento tra bambini e bambine. Quindi il problema non è tanto il fatto di avere molte maestre, ma una loro certa incapacità a sviluppare il proprio materiale didattico in modo da assecondare presunte caratteristiche tipicamente maschili.

Ti racconto delle mie elementari, Francesca: eravamo trenta, divisi più o meno 50/50 tra femmine e maschi; e un approccio “più fisico” alle cose, come dici tu, sarebbe stato impossibile semplicemente perché trenta bambini in una stanza o li tieni seduti o diventano ingestibili. E, miracolosamente, tutti i miei compagni maschi sono arrivati indenni alla licenza elementare senza traumi. Tra l’altro vorrei che mi spiegassi che tipo di approccio “fisico” proporresti per studiare la grammatica italiana o gli affluenti del Po, ma lasciamo stare (tra parentesi, io detestavo ritagliare e sono sempre stata una schiappa totale in disegno, ma giocavo discretamente a pallamano).

Programmi e attività si sono strutturati da decenni per rispondere a esigenze più femminili che maschili, col risultato che i bambini – in assenza di figure adulte (anche) maschili con cui rapportarsi – accumulano negli anni più frustrazioni, più fragilità (mancano dati nazionali, ma gli Uffici regionali che hanno redatto dei report parlano di un’incidenza dei disturbi scolastici molto maggiore nei maschi che nelle femmine).

Cerchiamo di filtrare un attimo questo minestrone di temi: programmi e attività sono strutturati in modo da rispondere alle esigenze delle leggi della fisica e della cronica mancanza di spazi adeguati della scuola italiana. Aggiungerei anche che se i programmi fossero strutturati per rispondere a esigenze più femminili forse gli studenti saprebbero citare qualche personaggio storico o scienziata in più oltre a Giovanna d’Arco e Marie Curie, ma non voglio infierire. Quello dell’assenza di figure di riferimento è un discorso diverso e complesso che non riguarda solo la scuola e mi sembra quantomeno azzardato indicarlo come unica causa delle fragilità degli studenti maschi, senza neppure interrogarsi sul ruolo della famiglia e dei nostri ancora troppo resistenti stereotipi di mascolinità.

Il portato di questo bagaglio, a un certo punto, si rovescia nella collettività, con risultati anche quelli noti: scarsa presenza di donne nei consigli di amministrazione delle grandi aziende, nei luoghi di responsabilità, nelle stanze dei bottoni.

Fammi capire un attimo, stiamo dicendo che la scarsa presenza di donne in CdA, luoghi di responsabilità e stanze dei bottoni è una conseguenza del fatto che ci siano troppe maestre nella scuole elementare? Really?

Escludendo che si tratti di un caso [infatti non lo è], di un incantesimo [idem], o di una vendetta di genere consumata freddissima [ma sei hai appena finito di dire esattamente questo!], forse bisognerebbe interrogarsi su quanto pesi, nella formazione prima e nella vita lavorativa poi, l’assenza di una sana mescolanza dei generi. Almeno oggi, che non è l’8 marzo.

Tantissimo, pesa. Tantissimo. Praticamente qualsiasi organizzazione internazionale pubblica rapporto su rapporto evidenziando le conseguenze sociali ed economiche dell’ancora scarsa presenza femminile in università, lavoro e politica. Per quanto mi sforzi di ricordare, però, nessuno si è sognato di dire che il nocciolo del problema sono le troppe maestre nella scuola italiana. Almeno fino a oggi, che non è l’8 marzo.

La pigrizia di Beppe: perché diversità fa davvero rima con qualità

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L’ultimo spettacolo (comizio?) di Beppe Grillo contiene il frammento riportato qui, in cui il padre-padrone del M5S riesce, nell’ordine, a: confondere travestiti e transgender; lamentarsi perché non si può più offendere impunemente alcuna delle due categorie; ridurre la questione dell’identità di genere e della transizione a un impianto penieno; ripetere il trito stereotipo della donna che parla troppo; banalizzare lo stupro; e già che c’è, offendere le sex worker. Non male, in meno di ottanta parole.

Del perché questo estratto dello spettacolo (arringa?) sia estremamente problematico si è già parlato altrove, e francamente se uno non ci arriva da solo non credo di poter fare alcunché per lui. Vorrei solo far notare una cosa banalissima: nulla in quel paragrafo fa ridere. Nulla.

Non ci vuole una laurea per capire che, se di lavoro fai il comico (tribuno?), non è una gran mossa usare pezzi che non fanno ridere. O meglio, che finalmente non fanno più ridere nessuno. A questo punto di solito c’è qualcuno che alza gli occhi al cielo e parla di dittatura del politicamente corretto, come se fosse un fenomeno reale; ma il punto è, molto più semplicemente, che l’evoluzione del costume richiede anche un’evoluzione del materiale di scena; e un comico incapace di rinnovarsi, che si ripiega su materiale vecchio e si lamenta quando gli si fa notare che il resto del mondo si sta evolvendo, non è (più) un bravo comico ma un mestierante impigrito. Certo poi ci sarebbe da discutere sulla permanenza di Grillo nella categoria comici, ma è un altro discorso.

Questo episodio secondo me dimostra molto bene un paradosso della discussione sulla diversità: quando si parla di “aprire” alle minoranze e migliorare l’inclusività e la diversità di un’organizzazione (che sia un’azienda, un parlamento o il cast di un film), c’è sempre qualcuno che obietta: “Non si può reclutare solo in base a questo, si finirebbe per abbassare gli standard!”. Lasciamo perdere il fatto che questa obiezione ignora totalmente il problema degli unconscious bias (di cui ho scritto qui) e distorce volutamente la questione (non ci si propone di reclutare solo in base a una determinata caratteristica); il punto è che aprendo a punti di vista e stili diversi, i vecchi modi di fare vengono esposti a nuovi concorrenti e se non sono in grado di migliorarsi finiscono per esserne superati. Quindi in realtà una maggiore diversità, ben lungi dall’abbassare gli standard, ha esattamente l’effetto contrario e cioè alzare il livello per chi precedentemente non doveva fare alcuno sforzo speciale.

Capisco che questa possa essere una brutta notizia per chi si è adagiato sugli allori, abituato da anni a fare il minimo sindacale per mancanza di concorrenza; ma se è capace di reinventarsi e continuare a proporre materiale di qualità non dovrebbe avere difficoltà a restare sulla breccia. Dopotutto, come amano ripeterci i paladini della meritocrazia, chi ha le capacità la strada la trova sempre.

Appunto su “uomini veri” e violenza

Trovo scoraggiante che si debba ancora puntualizzarlo, ma tant’è: definire “mostro” o “non un (vero) uomo” chi aggredisce, stupra, uccide una donna… non solo non ha senso ma è controproducente.

Dell’assurdità del concetto di “uomo vero™” ho già scritto, ma forse avrei dovuto soffermarmi anche sulla sua dannosità. Perché dicendo “I veri uomini non si comportano così”, di fatto creiamo una categoria a parte di “cattivi” senza volto a cui addossiamo tutta la responsabilità di atti di violenza, senza compiere il passo successivo e cioè interrogarci sul contesto che rende possibile determinati comportamenti (aiutino: inizia per p- e finisce per -atriarcato).

Chiaro che, non fatto questo passo successivo, poi non facciamo nemmeno quello seguente, vale a dire agire e cambiare i nostri comportamenti quotidiani. Parlare di “non (veri) uomini” è troppo comodo, consente a tutti noi e in primis agli uomini (sì, tutti gli uomini) di distanziarci dal problema senza interrogarci su come contribuiamo ad alimentarlo.

Un esempio recente (nonché di uno squallore estremo) di come la misoginia non sia appannaggio esclusivo dei “mostri” viene dai vari gruppi FB in cui centinaia di uomini postano foto di partner, amiche o ignare sconosciute a uso e consumo delle fantasie masturbatorie del gruppo stesso. I follower di queste pagine non sono seviziatori di gattini o nerd solitari che non lasciano la propria camera dal 2008: sono uomini normali. I nostri amici, parenti, colleghi.

Forse è il caso di toglierci il prosciutto dagli occhi: per usare un termine tecnico, la misoginia non è un bug del sistema, è una sua basic feature. Continuare a offrirci scusanti non cambierà questa realtà.

Riproduzione e genitorialità, il fardello che resta non condiviso

Sui media italiani è passata quasi in sordina la notizia che la sperimentazione di un contraccettivo ormonale maschile è stata interrotta dopo che alcuni partecipanti si erano lamentati di effetti collaterali ritenuti troppo pesanti dal panel che ha deciso di mettere fine ai test. Gli effetti in questione erano sbalzi d’umore, depressione, dolore nella zona della puntura (si tratta di un farmaco assunto mediante un’iniezione mensile), e alterazione della libido. Chiunque abbia letto il bugiardino di un qualsiasi analogo contraccettivo femminile non può fare a meno di rilevare l’incoerenza della decisione: sul mercato sono attualmente in vendita prodotti che annoverano tra i possibili effetti collaterali tutti quelli citati sopra, più emicrania, crampi, infezioni, nausea, cisti ovariche, sanguinamento prolungato, sepsi e perforazione dell’utero (yes, really). Tutti questi contraccettivi sono stati testati e per ciascuno di essi si è ritenuto che i rischi collaterali fossero comunque giustificati dallo scopo ultimo (cioè l’efficacia contraccettiva). In questo trial invece è bastato che alcuni effetti indesiderati venissero riscontrati in una minoranza di partecipanti perché l’intera ricerca venisse bloccata.

Come è stato fatto notare, al di là del rinunciare praticamente in partenza a un contraccettivo potenzialmente molto efficace, la decisione dimostra quanto ci sia ancora da fare a livello di educazione: la contraccezione è considerata responsabilità quasi solo delle donne, e se comporta rischi per la salute ci si aspetta che siamo comunque più pronte a farcene carico.

Se invece che di contraccezione si parla di maternità il discorso non cambia: sempre di questi giorni è la notizia (stavolta italiana e quindi in risalto sui media nostrani) che il presidente dell’INPS si è dichiarato a favore dell’introduzione di un congedo di paternità obbligatorio, della durata di quindici giorni. Di tutti i ridicoli alti lai che ho letto in reazione alla proposta, la palma va senza dubbio a “E dove sta la libertà di scelta”?

Tanto per capirci: quindici giorni di congedo obbligatorio restano pochi, ma mi rendo conto che stiamo parlando dell’Italia dove a quanto pare le cose vanno fatte sempre per gradi e con tempi geologici. Forse un giorno capiremo anche noi che: uno, allevare i figli è compito di entrambi i genitori, e non è giusto privare i padri della possibilità di condividere i primi mesi di vita dei propri bambini e le madri di un aiuto che dovrebbe potersi dare per scontato; due, il congedo di paternità obbligatorio non dovrebbe essere una misura isolata ma uno strumento inscritto in una più ampia strategia di promozione dell’effettiva parità di genere. Questo perché se il congedo lo prendono entrambi i genitori indipendentemente dal sesso viene a cadere uno dei bias impliciti che favoriscono gli uomini sul mercato del lavoro (ed è soprattutto per questo motivo che quindici giorni, come dicevo prima, sono pochi).

È significativo che il discorso della libertà di scelta salti fuori solo ora che si parla di uomini. Se ci interessasse davvero dovremmo sentirne parlare molto più spesso, per esempio quando si ragiona di asili nido aziendali, formule di part-time efficaci o telelavoro. Ma dal momento che – assenti o presenti – tutto quello che concerne i figli è considerato ancora di competenza quasi esclusivamente femminile (tranne quando si tratti di dar loro il proprio cognome), ecco che la libertà di scelta passa in secondo piano, e pazienza se una donna finisce per dover lasciare il lavoro per mancanza di alternative. “Li hai voluti i figli? Adesso te li gestisci!”, questa sembra essere ancora la mentalità prevalente; e, a giudicare dalle reazioni su contraccezione maschile e congedo di paternità, una mentalità ancora ben radicata e dura a morire. Sigh.

#FertilityDay, il prevedibile disastro di una strategia sconcertante

Brevissimo riassunto del pasticcio #FertilityDay: il Ministero della Salute ha pubblicato tempo fa un corposo (137 pagine) Piano Nazionale per la Fertilità che prevedeva tra l’altro una campagna di sensibilizzazione sul tema comprendente l’istituzione di una giornata della fertilità (il 22 settembre, se volete segnarvelo in agenda) con tanto di hashtag.

Di per sé l’idea non è neanche malvagia, la denatalità può effettivamente diventare un grosso problema ed è giustissimo in ogni caso migliorare la prevenzione delle patologie che possono danneggiare la fertilità (se non altro perché in genere hanno anche altre conseguenze ed è meglio evitarle a prescindere).

Il problema è il modo in cui la campagna è stata impostata. Delle terrificanti “cartoline” con immagini di clessidre biologiche (ma non era l’orologio?) e pantofoline avvolte da un nastro tricolore di Ventenniana memoria si è già parlato parecchio, quindi non mi ci soffermo. Sono andata però a leggermi il Piano, che mi ha suscitato non poche perplessità.

Il documento si apre con la sacrosanta considerazione che, trattandosi di strategia sviluppata dal Ministero della Salute, il suo focus è la Fertilità (sì, con la maiuscola, tipo divinità minore in un manualetto di mitologia greca) dal punto di vista medico. Argomenti più attinenti alla dimensione socio-culturale ed economica quali le misure di sostegno alla famiglia non verranno trattate.

Fin qui sarei anche d’accordo, il problema è che poi le considerazioni socio-culturali saltano fuori eccome, e non in maniera positiva. In altre parole, il Piano prende in esame la botte piena delle odierne difficoltà di conciliazione lavoro/famiglia per dare addosso a quegli egoisti dei millennial (non chiamati così perché gli estensori del documento non hanno evidentemente contezza del concetto), e si libera disinvoltamente dalla moglie ubriaca del dover proporre soluzioni concrete a quelle difficoltà nascondendosi dietro il “Non è di nostra competenza”.

Non sto ovviamente a riassumervi tutte le 137 pagine, anche perché la maggior parte sono dedicate a strategie e progetti strettamente medici su cui non posso esprimere un giudizio competente. Piccola selezione commentata.

Tra gli obiettivi del Piano ci sono:

4) Operare un capovolgimento della mentalità corrente volto a rileggere la Fertilità come bisogno essenziale non solo della coppia ma dell’intera società, promuovendo un rinnovamento culturale in tema di procreazione.

5) Celebrare questa rivoluzione culturale istituendo il “Fertility Day”, Giornata Nazionale di informazione e formazione sulla Fertilità, dove la parola d’ordine sarà scoprire il “Prestigio della Maternità”.

Quasi quasi vado a rileggere The Handmaid’s Tale per controllare che il punto 4 non l’abbiano preso da lì. Tralasciando il fatto che la fertilità (minuscola voluta) non è un “bisogno essenziale”, è preoccupante che un documento ufficiale promuova l’idea che il corpo delle persone, soprattutto donne, debba essere messo al servizio della società. Sull’infelicissima idea di usare l’espressione “rivoluzione culturale” mi taccio, come pure sull’idea di appuntare immaginarie medaglie sulle ovaie delle italiane.

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L’appello per la donazione delle fedi alla Patria il prossimo anno

In più punti del Piano si parla poi della necessità di migliorare la conoscenza alla fertilità nell’ambito di una più ampia strategia di educazione alla sessualità consapevole già dai 13-14 anni, coinvolgendo pediatri, MMG e ovviamente le famiglie. Lodevole sulla carta, ma non sarebbe infinitamente più efficiente e meno ipocrita sostenere finalmente con forza i programmi scolastici di educazione sessuale e alla diversità?

Proseguiamo: una delle “cartoline” usate nella campagna parla dei genitori giovani come maggiormente “creativi”, un concetto che torna anche nel Piano (misto a un po’ di millennial-bashing gratuito):

Si assiste, infatti, ad una pericolosa tendenza a rinviare questo momento [la prima gravidanza], in attesa proprio di una realizzazione/affermazione personale che si pensa possa essere ostacolata dal lavoro di cura dei figli [che si pensa, eh. Nella realtà non succede proprio mai mai mai]. La maternità, invece, sviluppa l’intelligenza creativa e rappresenta una straordinaria opportunità di crescita. L’organizzazione ingegnosa che serve a far quadrare il ritmo delle giornate di una mamma, la flessibilità necessaria a gestire gli imprevisti, la responsabilità e le scelte implicite nel lavoro di cura, le energie che quotidianamente mette in campo una madre sono competenze e potenziali ancora da esplorare e capire come incentivare e utilizzare al rientro al lavoro [grassetto aggiunto].

Sorvoliamo su quel “la maternità sviluppa l’intelligenza creativa” che ha più o meno lo stesso valore scientifico delle scie chimiche, e raccogliamoci in silenzio per un momento sulla totale assenza del coinvolgimento maschile nel far quadrare il ritmo delle giornate e nel mettere in campo energie. Sorry, dudes. Continuate pure a dare ditate di colore sulle pareti della caverna.

Se poi vi state chiedendo che cosa si intenda parlando delle competenze materne da utilizzare al rientro al lavoro, sappiate che gli autori del Piano deplorano come

il valore sociale della maternità non [sia] considerato un valore aggiunto nei curriculum lavorativi delle donne […] Il paradosso è che per esempio, un periodo di volontariato all’estero come coordinatore di un progetto di cooperazione per qualche mese, viene considerato e può fare la differenza nella valutazione professionale, mentre gravidanza, parto, allattamento e accudimento (per es. nel caso di figli con disabilità), non sono considerati altrettanto indicativi delle capacità organizzative e di relazione della stessa persona.

L’hanno scritto davvero. Non vedo l’ora che arrivi il momento in cui potrò cliccare Endorse su LinkedIn a tutte le mie amiche mamme premiandole per le loro competenze in “biberon”, “cambio pannolini” e “bagnetto”. Dovrebbe essere superfluo, ma ve lo dico lo stesso: non mi permetto di prendere in giro i genitori. È questa idea di professionalizzazione della maternità che merita solo di essere ricoperta di ridicolo.

Ancora un po’ di millennial-bashing, commentato direttamente nella citazione (grassetto aggiunto):

Da un punto di vista psicologico sembra diffuso un ripiegamento narcisistico [il narcisismo è una patologia ben precisa, ma perché dovrebbero saperlo? In fondo è solo il Ministero della Salute] sulla propria persona e sui propri progetti, inteso sia come investimento sulla realizzazione personale e professionale, sia come maggiore attenzione alle esigenze della sicurezza, con tendenza all’autosufficienza da un punto di vista economico e affettivo [il desiderio di guadagnarsi da vivere in autonomia è narcisistico. K] . Tale disposizione, spesso associata ad una persistenza di un’attitudine adolescenziale, facilitata dalla crisi economica [la crisi produce Peter Pan che però vogliono realizzarsi professionalmente ed essere indipendenti. Mi sta venendo mal di testa] e dalla perdita di valori e di identificazioni forti, si riflette sulla vita di coppia e porta a rinviare il momento della assunzione del ruolo genitoriale, con i compiti a questo legati. Nelle donne, in particolare, sono andati in crisi i modelli di identificazione tradizionali ed il maggiore impegno nel campo lavorativo e nel raggiungimento di una autonomia ed autosufficienza ha portato ad un aumento dei conflitti tra queste tendenze e quelle rivolte alla maternità [non ci sarebbe grande conflitto se il Paese vivesse nel XXI secolo ¯\_(ツ)_/¯]

Più avanti:

Le donne si trovano all’angolo, in quello che viene definito in psicologia ‘doppio legame’. Si tratta di una condizione entro la quale qualunque scelta fatta è una scelta sbagliata. La scelta della “non” maternità, appare, però, ancora di segno negativo, come se fosse meno libera e, quindi, quasi da giustificare (con la precarietà del lavoro, la mancanza di servizi per l’infanzia, la crisi economica ecc.). Ma qualsiasi scelta fatta avrà come conseguenza un senso di incompiuto [grassetto aggiunto].

No, imbecilli che per le virgole tirano i dadi. Ci sono anche persone che scelgono di non avere figli perché non li vogliono, e guess what? Non ci sentiamo affatto incompiuti per questo.

E’ [sic] utile ricordare che la “sessualità” non è un accessorio del nostro comportamento avulso ed enucleabile dalla funzione riproduttiva, a cui biologicamente è destinata.

Con tanti saluti alla comunità LGBT e a tutti quegli scienziati che si sgolano a spiegare che la sessualità umana avulsa ed enucleabile dalla funzione riproduttiva lo è eccome. Per inciso, mi sto ancora lambiccando il cervello per capire perché “sessualità” sia stato virgolettato. Qualche suggerimento?

Resistete, siamo in chiusura. Come ho detto non mi esprimo sulla validità delle strategie mediche individuate nel Piano; ma mi pare che i passi riportati dimostrino già ampiamente che dal punto di vista della comunicazione si sia mancato clamorosamente il bersaglio. E non basterà eventualmente “cambiare le cartoline”, come propone la ministra Lorenzin (a parte il fatto che sarebbe indice di sconcertante pressappochismo cambiare a cose fatte il contenuto di una campagna che si suppone essere stata approvata dopo ampie discussioni).

Se ci si fosse limitati a un documento più tecnico rivolto a operatori sanitari ed educatori ed eventualmente complementare a una strategia di supporto (economico, logistico…) alla genitorialità, probabilmente si sarebbe prodotto qualcosa di più valido. Invece il (condivisibile) intento di prevenzione è stato completamente nascosto dal disastro comunicativo di un messaggio antiquato, mal articolato, e in certi punti francamente offensivo; e non credo che cambiarlo a questo punto farà una gran differenza. Mettersi a correre non può compensare il fatto di essere partiti in una direzione decisamente sbagliata.

Mascolinità tossica: perché gli stereotipi di genere non danneggiano solo le donne

“Un vero uomo…” completate a piacere, tanto avrete sentito la frase abbastanza volte da poter sicuramente pensare a diverse caratteristiche che rendono un uomo “autentico”. Questo insieme di tratti tipici degli uomini veri™ è sorprendentemente ristretto, rigido, e dannoso, da cui il nome di toxic masculinity o mascolinità tossica che si usa sempre più spesso per definirlo. Ma che cos’è esattamente la mascolinità tossica? E soprattutto, perché esiste?

Si tratta innanzitutto di una struttura, una costruzione “that casts men in very narrow emotional, social, and physical roles, and punishes them severely if they step outside those boundaries”. Charlie Glickman, educatore e autore che tiene corsi sulla socializzazione maschile, chiama questa struttura la “Act Like a Man Box“, con l’accento proprio sull’azione: un’altra importante caratteristica da notare è appunto il fatto che la mascolinità sia una performance, una recita continua in cui gli uomini sono chiamati a provare ancora e ancora di essere “veri”. Infine, i rapporti di potere all’interno della struttura possono variare: “the Box is hierarchical as well as performative, […] so each guy has to compete with the others in order not to be the one who’s outside the Box. And as each one’s performance becomes more vigorous, it forces the others to do the same” (questo aiuta a spiegare perché, tra l’altro, molestie e aggressioni rischino di degenerare più rapidamente quando gli uomini coinvolti sono in gruppo anziché da soli).

Per decenni questo approccio ha garantito agli uomini una serie di vantaggi a danno di chi non fa parte del club, in primis le donne: “the masculine mystique promises men success, power and admiration from others if they embrace their supposedly natural competitive drives and reject all forms of dependence”. L’uomo vero™ ha successo con le donne – quindi si pone aggressivamente nei loro confronti e non accetta un “no”; l’uomo vero™ è ovviamente etero – quindi fa di tutto per allontanare i sospetti di omosessualità e non si fa scrupoli ad adottare atteggiamenti apertamente omofobi; l’uomo vero™ va in palestra, beve, e consuma prodotti “da uomo” – un’idea che i pubblicitari hanno al tempo stesso assecondato e alimentato (il cosiddetto manvertisement).

masculinitysofragile

Ora, gli eccessi a cui arrivano certi uomini nello sforzo di assicurare una performance convincente sono effettivamente un po’ ridicoli – date un’occhiata all’hashtag #MasculinitySoFragile su Twitter per una collezione di prodotti bislacchi tipo le candele al bacon (giuro) e relativi commenti. Il problema è che i danni a lungo termine che questa gara senza fine provoca sono estremamente seri – altrimenti non staremmo parlando di mascolinità tossica.

Socializzazione e mascolinità

È solo intorno al secondo/terzo anno di età che iniziamo a prendere pienamente coscienza del mondo che ci circonda e dell’esistenza dei ruoli di genere. Neonati e bambini presentano tratti quali vulnerabilità, tendenza a esteriorizzare il dolore (in primis con il pianto), bisogno di contatto fisico con altri esseri umani… che la nostra società associa con la femminilità. Fin da piccoli, quindi, i bambini vengono incoraggiati a “non fare la femminuccia”: non correre dalla mamma se si sono fatti male, non piangere, non esitare a reagire in maniera aggressiva durante eventuali litigi con altri bambini.

In maniera anche più preoccupante, genitori e adulti in generale tendono a vedere nei bambini anche piccolissimi tratti “tipici” del loro genere anche quando questi non esistono, e a comportarsi di conseguenza: in diversi studi si è riscontrato che i genitori di neonati “imagined baby boys to be bigger and generally ‘stronger’. When a group of 204 adults was shown a video of the same baby crying and given differing information about the baby’s sex, they judged the ‘female’ baby to be scared, while the ‘male’ baby was described as ‘angry'”. Il risultato? “Differences in perception create correlating differences in the kind of parental caregiving newborn babies receive […] From the moment of birth, boys are spoken to less than girls, comforted less, nurtured less”.

Questo approccio continua durante il resto dell’infanzia e nell’adolescenza, con conseguenze fortemente negative nel lungo periodo. L’uomo vero™ non si lamenta di stare male: gli uomini aspettano effettivamente più a lungo delle donne prima di vedere un medico quando ne hanno bisogno e sono meno propensi a cercare aiuto per depressione e altri problemi mentali, al punto che sempre più ricercatori identificano in questo il fattore principale della loro minore aspettativa di vita: “The 10 years of difference in longevity between men and women turns out to have little to do with genes. Men die early because they do not take care of themselves”.

Il vero uomo™ protegge la propria reputazione a ogni costo: in combinazione con l’essere socializzati a imporsi sugli altri, se necessario con il ricorso alla forza fisica, questo atteggiamento è il maggiore responsabile della violenza maschile. Nelle parole di James Gilligan, già direttore del Center for the Study of Violence di Harvard: “I have yet to see a serious act of [male] violence that was not provoked by the experience of feeling shamed and humiliated, disrespected and ridiculed, and that did not represent the attempt to prevent or undo that ‘loss of face'”.

Il vero uomo™ ha successo sul lavoro e mantiene la famiglia: questo stereotipo è ancora così saldamente radicato che uno studio del 2013 ha scoperto che le coppie in cui la moglie iniziava a guadagnare più del marito avevano più probabilità delle altre di divorziare; inoltre, gli uomini finanziariamente dipendenti dalla compagna sono cinque volte più propensi a tradirla rispetto a quelli che guadagnano le stesse somme.

Uno stereotipo è per sempre

Soprattutto l’ultimo esempio che abbiamo visto dimostra molto bene lo scollamento tra aspettative e realtà che si può verificare in periodi di cambiamento culturale, quando la società muta più velocemente delle norme e degli stereotipi che la permeano. Non è certo un caso che molti uomini si sentano frustrati: da un lato vengono ancora spinti a conformarsi a rigidi standard che li derubano di parte delle capacità emotive e li limitano nell’espressione di sé; dall’altro, le ricompense promesse per la conformità all’idea di “autentica” mascolinità stentano a materializzarsi, per una semplice ragione: quegli stessi atteggiamenti che prima li avvantaggiavano in qualsiasi situazione, adesso in certi contesti non sono più adeguati. Per esempio, “while the compliance and docility […] still hold women back from top leadership positions in business and politics, those same traits do get rewarded in school. And in a world where educational achievement increasingly outweighs gender in the job market, that at least gets women in the door”.

Questa frustrazione spesso viene reindirizzata contro le donne in generale e il femminismo in particolare. Contro le donne, perché vengono ritenute la causa ultima che spinge gli uomini a comportarsi in una determinata maniera: “One of the most perversely fascinating aspects of toxic masculinity is how often women get blamed for systems, standards and beliefs that men put into place” (si pensi per esempio al mito secondo cui “le donne preferiscono i cattivi ragazzi”).

Il femminismo diventa poi un bersaglio naturale per chi confonde la critica alla mascolinità tossica con quella agli uomini tout court e, invece che interrogarsi su come risolvere il problema, preferisce biasimare chi ha portato l’attenzione su di esso. Ironicamente, in realtà sono proprio le femministe ad avere degli uomini una visione molto più positiva di quella dello standard patriarcale dell’uomo vero™, una specie di ominide che non riesce a controllarsi quando vede un paio di gambe, si esprime a grugniti e non sa articolare altre emozioni oltre alla rabbia.

Quando si dice che il patriarcato non danneggia solo le donne è esattamente a fenomeni del genere che ci si riferisce: per usare la metafora descritta all’inizio, la “scatola” non crea problemi solo a quegli uomini che ne sono esclusi (p.e. perché gay), ma anche a quelli che devono costantemente dimostrare il proprio diritto a rimanerci dentro. Ed è sintomatico di quanto radicato sia il concetto di “uomo vero” il fatto che lo si tiri in ballo anche quando si vogliono evocare aspetti di mascolinità positiva, per esempio dicendo che chi mette le mani addosso a una donna non è un uomo, o che un vero uomo non si vergogna di mostrare i propri sentimenti.

L’intento di promuovere questi comportamenti è sicuramente lodevole, ma non fa che perpetuare l’idea che esistano determinati requisiti da osservare per qualificarsi come uomo. In altre parole, si limita a modificare il contenuto della scatola, quando invece dovremmo cercare di liberarcene tout court. Sicuramente non è facile ignorare i condizionamenti esterni, specie quando continuano in una certa misura a portare dei vantaggi; ma nel lungo periodo, come abbiamo visto, si eviterebbero problemi ben maggiori.

#8marzo: parliamo (ancora) di quote rosa

Scrivere di femminismo per l’otto marzo è meno semplice di quanto sembri: ci sono talmente tanti argomenti da affrontare che davanti allo schermo ho finito per sentirmi come mio padre quando entra in un parcheggio semivuoto e va in tilt da troppa scelta. Per di più pare che chiunque si senta in dovere di fare una riflessione sulla giornata (seria, scherzosa o totalmente disinformata), per cui mi sono chiesta se fosse davvero necessario aggiungere la mia. Però, siccome scrivere per me è innanzitutto un modo di mettere ordine in testa, ho deciso di approfittarne per articolare qualche pensiero su un tema non di stretta attualità ma che continua a riemergere periodicamente: le quote rosa o, più precisamente, le obiezioni alle suddette.

Del tema, come dicevo, si discute da tempo e non credo sia necessario spiegare di che si tratti. Qui trovate un sito che elenca i vari tipi di gender quotas applicati nei sistemi elettorali di mezzo mondo e che contiene anche un’utile sezione FAQ per familiarizzarsi con il concetto.

Le obiezioni alle quote rosa, presentate per esempio in questo pezzo di Charlotte Matteini, sono sostanzialmente riassumibili così: imporre una certa percentuale di donne in liste elettorali/consigli di amministrazione/staff accademici eccetera sarebbe una sorta di sessismo rovesciato, non basato sul merito e offensivo per quelle donne effettivamente capaci che ce la farebbero semplicemente basandosi sulle proprie competenze. Questo trova eco nel famoso ritornello “Non è che non abbiamo considerato una donna per la posizione X: non abbiamo trovato candidate adatte”.

In astratto, questo ragionamento mi troverebbe d’accordo: proprio in quanto femminista sposo pienamente l’idea che le donne debbano essere giudicate esclusivamente per le proprie capacità, e rifiuto la narrativa del sesso intrinsecamente debole che ha bisogno di aiutini e stampelle.

Il problema è che anche il più brillante ragionamento teorico deve poi sottoporsi alla prova dei fatti: e nel mondo in cui le donne fanno politica e lavorano adesso, quello appena enunciato si rivela ingenuo e anche incompleto. Analizziamo uno dopo l’altro questi due aspetti.

Nulla che sia più ingiusto

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Source: Twitter

Questa immagine è molto popolare nelle discussioni online perché illustra efficacemente quello che succede quando si applica l’uguaglianza di trattamento ignorando le disparità delle situazioni di partenza (la famosa ingiustizia delle “parti uguali fra disuguali” di don Milani). E quando si tratta di valutare le competenze delle donne sul lavoro (inclusa l’attività politica), queste disparità persistono eccome. Il gender bias deriva “from the perceived mismatch between the ‘typical woman’ and the requirements of jobs that historically were held by men” e si articola in diversi modi: richiedere a una donna maggiori prove delle sue competenze rispetto a un uomo, ritenere che la maternità (ma non la paternità) faccia peggiorare le performance lavorative, aspettarsi che una donna eviti certi comportamenti stereotipicamente femminili (“Non si piange in ufficio!”), salvo poi accusarla di scimmiottare gli uomini.

L’aspetto forse più insidioso del gender bias è che è largamente inconscio (se volete valutare il vostro, un test interessante è disponibile qui), per cui anche in situazioni in cui ci illudiamo di essere del tutto obiettivi finiamo per rinforzare certi messaggi senza accorgercene. Inutile dire che questi messaggi non compaiono dal nulla una volta che una donna fa il proprio ingresso nel mercato del lavoro, ma vengono veicolati già da genitori e insegnanti ben prima di allora.

Lo studio “Leaning Out: Teen Girls and Gender Biases” ha documentato i pregiudizi contro le adolescenti cui vengano affidate posizioni di responsabilità, pregiudizi riscontrati nei loro coetanei maschi e femmine, ma anche in molti dei loro stessi genitori. Ricercatori israeliani hanno dimostrato che il bias degli insegnanti delle scuole elementari contribuisce ad allontanare le studentesse dai corsi avanzati di matematica e scienze, con un effetto a cascata sulle loro future scelte di carriera (una conseguenza non indifferente considerato che questo le allontana anche dai lavori di fascia retributiva medio-alta). Ironicamente, neppure le insegnanti sfuggono al pregiudizio, ottenendo sistematicamente valutazioni inferiori a quelle dei colleghi uomini anche per comportamenti identici (p.e. correggere i paper assegnati agli studenti nello stesso lasso di tempo).

Ma l’esempio per me più eclatante è quello dell’autrice Catherine Nichols, che ha provato a inviare il suo secondo libro a vari agenti sia con il suo vero nome che a nome di un inesistente George Leyer: il risultato? “I sent […] six queries. Within 24 hours George had five responses […]. For contrast, under my own name, the same letter and pages sent 50 times had netted me a total of two manuscript requests. […] I sent more. Total data: George sent out 50 queries, and had his manuscript requested 17 times. He is eight and a half times better than me at writing the same book [grassetto aggiunto]”.

Se son competenze, fioriranno… ma quando?

Mi soffermo solo molto brevemente sul fatto che il ragionamento di cui parlavo in apertura manchi di realismo anche in un altro modo: sembra cioè presupporre che ogni uomo in una determinata posizione l’abbia raggiunta esclusivamente grazie alle proprie capacità (perché chi le ha si fa strada no matter what, giusto?). Non credo valga la pena di dilungarsi sugli innumerevoli disastri ed esempi di incompetenza forniti da politici, economisti e industriali assortiti, né di citare uno per uno quei dirigenti a cui la poltrona è stata letteralmente creata su misura, magari per consolarli della classica “trombata” elettorale.

Vorrei ora passare all’altro problema a cui ho accennato, vale a dire l’incompletezza: soffermarsi solo sul merito e le competenze è sicuramente importante, ma non credo sia tutto.

È vero che, fortunatamente, ci sono già moltissime donne brillanti e intraprendenti che riescono a farsi strada nonostante tutto e contribuendo a smantellare poco per volta i pregiudizi di cui sopra, aprendo così la strada ad altre. Ma questo processo va ancora a rilento: secondo l’agenzia Women delle Nazioni Unite, al ritmo di cambiamento attuale ci vorranno altri cinquant’anni prima di raggiungere una completa parità di genere in politica. La domanda è: possiamo permetterci di aspettare così tanto? I benefici di una maggiore diversità in plancia di comando sono ormai ampiamente dimostrati: se nonostante questo governi e compagnie restano riluttanti ad attuare strategie per reclutare più donne (e minoranze in generale), le quote rappresentano una valida alternativa per spingere sull’acceleratore.

Bisogna anche tenere presente il potente effetto che i modelli hanno sulle scelte delle persone: è miope dire che le donne siano meno interessate alla politica o all’ingegneria sulla semplice base del fatto che quasi nessuna bambina sceglie l’una o l’altra quando le viene chiesto che cosa voglia fare da grande. Se non vedono in quei ruoli nessuno in cui possano identificarsi, è abbastanza ovvio che non ci pensino. Non parliamo poi della bambina che effettivamente risponde di voler fare il pilota, e si sente rispondere che è un lavoro da maschi.

Concludendo: sarei felicissima di vivere in un mondo dove le persone vengono valutate esclusivamente sulla base delle proprie capacità e l’appartenenza di genere (così come l’etnia, l’orientamento sessuale o la religione) non gioca alcun ruolo. E so che ci arriveremo, che ci sono segnali incoraggianti in questo senso, e che siamo sulla strada giusta. Però sono anche sufficientemente realista da sapere che non siamo ancora arrivati e che continuiamo a procedere troppo lentamente: quindi, in questa parte del viaggio, ben vengano le quote rosa. Più facciamo buon uso degli strumenti che abbiamo a disposizione per raggiungere la piena parità, e prima potremo smettere di usarli.

Poche idee e tutte confuse: Beatrice Lorenzin e le unioni civili

La nomina di Beatrice Lorenzin a Ministro della Salute aveva suscitato all’epoca non poche perplessità. Sarebbe forse ingeneroso fissarsi troppo sul fatto che la ministra abbia solo un diploma di maturità classica, visti anche i numerosi precedenti tra i titolari di dicasteri importanti. È vero però che la Lorenzin esperienza nel campo della sanità non ne aveva, e che i motivi per criticarla sul merito non sono mancati. Personalmente ho rivisto drasticamente al ribasso la mia opinione già non entusiasta a fine 2013, quando la ministra si è detta soddisfatta della relazione annuale sull’applicazione della 194, facendomi venire il dubbio che sugli occhi si fosse messa non le classiche fette ma direttamente un prosciutto intero. Suppongo che anche voi viviate nel mondo reale e non nella la la land dove la 194 verrebbe garantita in maniera efficace (Beatrix dixit), per cui non vi sto a spiegare dove e come (e quanto) sbagliasse. Né vale la pena di dilungarsi troppo sulla questione della prefazione a suo nome comparsa sul volume Elogio dell’omeopatia e poi ritirata in fretta e furia dopo le proteste del CICAP, non senza aver precisato che la prefazione stessa non era stata preventivamente autorizzata (mah).

Preferisco concentrarmi sul contributo di Beatrice al dibattito sulle unioni civili e in particolare sulla sua performance di qualche giorno fa in un videoforum organizzato da Repubblica. Il video dura poco più di mezz’ora ma se temete di non reggere non preoccupatevi, l’ho guardato per voi.

Si parte con un’introduzione volta a stabilire che Beatrice, bontà sua, non è affatto contraria alle unioni civili di per sé: il modello proposto dal DDL Cirinnà le va bene, perché “istituisce un istituto [bonjour Mme Lapalisse] diverso dal matrimonio”. Sottolineiamolo bene, in caso non si fosse capito: l’importante è non fare confusione tra il matrimonio, che è riservato alle persone serie, e le unioni civili. Però per carità, non saltatele subito addosso: è lei la prima a riconoscere che anche le coppie dello stesso sesso, “nel momento che si prendono un impegno”, hanno diritto a una certa serie di tutele (parentesi grammatical-stilistica: confesso di essere rimasta totalmente stregata dall’assoluta noncuranza con cui Beatrice mortifica il che relativo).

Qual è il problema allora? Secondo Bea, la legge non è stata scritta bene. Se fosse stata preparata meglio non ci sarebbe stato “l’equivoco” su stepchild adoption e adozioni gay. “Quale equivoco?”, starete pensando. L’uso di quell’oscuro termine inglese (mai fidarsi della perfida Albione) avrebbe permesso di nascondere quello che c’era nell’articolo 5, e che poi fortunatamente “si è scoperto” (testuale). Accidenti, e che mai si nasconde nell’articolo 5? Se lo leggi al contrario esce il demone del gender? Se lo avvicini a una candela scopri di aver sottoscritto in inchiostro simpatico l’acquisto di cento copie dell’Enciclopedia della Pastasciutta? Che diamine si nasconde nell’articolo 5?

Secondo la Lorenzin, un riconoscimento del diritto di accesso alla genitorialità e – rullo di tamburi – alla maternità surrogata. Lo so che state per dire che la GPA non c’entra una ceppa, ma siete duri di comprendonio. Per fortuna che c’è Beatrice a spiegarvi le cose: “La giurisprudenza non è un libro delle buone intenzioni [eh già], è dura lex sed lex [lo sappiamo che hai fatto il classico, Bea, tranquilla], nel momento che tu permetti [ecco, forse le elementari no]”, insomma al termine di questo sproloquio scopriamo che “il diavolo si nasconde nella grammatica [e se non altro ho capito perché la eviti come la peste] ma anche più nel diritto” [sarà in causa da anni con un vicino?].

Appurato che il vero significato dell’articolo 5 è permetterci di accedere alla maternità surrogata, la ministra procede a spiegarci di che cosa si tratti: “Digitiamo maternità surrogata in internet [non si digita “in internet”, Bea, ma lasciamo perdere] e vediamo che cosa esce [oddio, che cosa mai uscirà?], ci sono proprio i contratti”. Qui Bea tenta di spacciare per buone le sue personali stime sul ricorso alla GPA da parte di coppie etero e omosessuali, al che Laura Pertici si ribella e le fa presente che la stragrande maggioranza delle coppie interessate da questo discorso sono etero. Nessun problema, si batte in ritirata portando il discorso sul femminismo: “Ci siamo indignate su quello che viene fatto sul corpo delle donne per motivi religiosi [non so come mai ma ho il sospetto che tu non stia parlando dell’obiezione di coscienza sulla 194], sulla prostituzione [sex work, Bea… ma che te lo spiego a fare]” e insomma, si riesce a confondere le acque quel tanto che basta per riportare il discorso sul malefico articolo 5. La Pertici accenna timidamente che la questione della GPA andrebbe forse regolamentata, al che Bea le risponde beffarda che “Certo non lo può decidere una norma che invece dovrebbe fare un’altra cosa”. E su questo, sia detto, ha ragione da vendere: sarebbe come se la discussione di un DDL sulle unioni civili diventasse la scusa per parlare, che ne so, di piani di edilizia residenziale pubblica o di revisione dei criteri di assegnazione degli alloggi popolari. Oh wait.

Secondo Beatrice il vaso di Pandora dell’articolo 5 sarebbe anche inutile. Perché? Beh, perché per l’adozione del figlio del partner basterebbe fare ricorso al già esistente istituto dell’adozione speciale. E va detto, sottolinea la Lorenzin (mode Checco Zalone on), che quello delle adozioni è un tema “fortissimo”. Il nostro tema sono bambini e ragazzi, ripete tutta convinta. Io pensavo stessimo discutendo di unioni civili, ma evidentemente mi sbagliavo perché a Bea interessa parlare di tutto meno che di quello. E vai di utero in affitto.

Le viene fatto notare che in Canada e negli Stati Uniti la GPA è strettamente regolamentata ed è possibile anche come gesto altruistico. Macché, “nessuna lo fa gratis, lo fanno per pagarsi il mutuo [eh?]. Le faccio un esempio: in Russia [si parlava di Canada e Stati Uniti, Bea, ma pazienza. Immagino che tu abbia studiato geografia con Sarah Palin] ci sono questi contratti… e nel momento che il bambino nasce [ora la picchio con una matita blu]…”. Adesso tenetevi forte, perché “secondo la legge italiana le persone che sottoscrivono un contratto del genere non sono degne di fare i genitori”.

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Source: giphy.com

 

Lo sproloquio si conclude con un lapsus freudiano da manuale in cui Bea parla di “una famiglia normale, [con] un papà e una mamma”, e si apre quindi alle domande dei lettori. Si parte con la classica ipotetica “Che faresti se avessi un figlio gay e un giorno ti dicesse di voler adottare il figlio del suo partner?” (En passant: io detesto questo genere di domande. Non è che dobbiamo interessarci di una questione così importante come i diritti fondamentali solo quando la cosa ci tocca direttamente. Ma okay, andiamo avanti).

Risposta: “Lo aiuterei a vivere bene questa sua condizione [permettimi di avere qualche dubbio in proposito], questa sua scelta [ecco appunto. Bea, l’omosessualità non è una scelta. Le basi, su]… questa fragilità in più [a parte l’abilismo da quattro soldi: essere gay non è di per sé una “fragilità”. Lo diventa grazie a gente come te]. Io a mio figlio non gliel’ho negato di avere una mamma e un papà [e quindi? C’è un vincolo di mandato familiare?]”.

Le domande successive ci permettono di scoprire che “avere un figlio non è un diritto, spesso è un dono” [Ah, gli evergreen che non mancano mai. Non so, vuoi parlarci anche della scomparsa delle mezze stagioni?] e che “forse l’unico limite che possiamo porre adesso è se riteniamo importante che il bambino abbia sia la figura della mamma che quella del papà” [no, non ho capito nemmeno io]. Bea ci informa poi delle meraviglie che ha compiuto con la legge sull’eterologa, “perché nel momento che fai il ministro [ora piango], lo fai di tutti”; e del fatto che il tema qui “non è quello della discriminazione [ah no?], chi stiamo discriminando, le coppie, o stiamo discriminando i bambini, c’è un problema oggettivo dei minori o no? [Certo che c’è, Bea, ma non quello che vorresti farci credere tu]”.

“Noi stiamo parlando che [va bene, ci rinuncio] purtroppo per come è stata scritta la norma si parla soltanto del figlio naturale. Nessuno capiva che cos’era questa stepchild adoption, un po’ per il nome, anche a pronunciarlo è difficile [e dai Bea], un po’ perché la norma è abbastanza criptica [rimanda a un’altra legge, Bea, bastava andare a controllare che cosa dicesse quell’altra legge. Bastava “digitare in internet” per cinque secondi] e quindi bisogna essere un giurista [come te?]”. Stralciare la stepchild adoption per occuparsi della questione in una specifica legge creerebbe forse il rischio di dimenticarsi del tema, azzarda Laura Pertici. No no no, insorge Bea: “Se c’è la volontà politica si fa tutto”. E finalmente, quasi alla fine di questo estenuante videoforum, mi trovo d’accordo con la ministra.

Se ci fosse la volontà politica, sarebbe stato presentato un DDL sul matrimonio egualitario. Se ci fosse la volontà politica, non avremmo dovuto assistere a un ostruzionismo patetico e a dibattiti in aula vergognosi per contenuto e forma. Se ci fosse la volontà politica, l’Italia avrebbe raggiunto il resto del mondo occidentale da tempo. Peccato che questa volontà ce l’abbiano realmente in pochi, mentre gli altri continuano a tergiversare. Oppure, come la Lorenzin, pensano che “fare il ministro di tutti” voglia dire semplicemente imporre la propria visione al resto del mondo. Se per di più è una visione ristretta e disinformata come la sua, siamo a posto.