Questo non è un post su commissione, ma quasi; nel senso che dopo la recente sentenza della Cassazione sull’applicabilità o meno di una determinata aggravante in un caso di stupro si è tornato a discutere dell’inadeguatezza della legge italiana sulla violenza sessuale, soprattutto per quanto riguarda il concetto di consenso. Una persona che seguo su Twitter mi ha chiesto se avessi mai scritto un post in proposito e mi sono resa conto che, pur avendone accennato, non ne avevo mai parlato in dettaglio sul blog; quindi grazie a Renzo per avermici fatto pensare (nel tono della professoressa di latino a cui il secchione del primo banco ha appena fatto notare che quella versione l’ha già data per compito la settimana scorsa).
E dunque, il consenso. Questo concetto apparentemente banale che distingue un rapporto sessuale da uno stupro, e che nel momento in cui ho messo mano alla tastiera mi ha fatto pensare a quello che S. Agostino diceva del tempo (non nel senso di meteo), perché nel momento in cui inizi a pensarci attentamente ti rendi conto che no, non è poi così banale.
Tanto per cominciare, non siamo neppure d’accordo su come si debba esprimerlo: nella prima fase delle campagne contro la violenza sessuale si è posto l’accento sul modello “negativo”, quello del “No significa no”; ma i critici di questo approccio hanno fatto notare che di fatto può essere interpretato come silenzio-assenso, un’idea particolarmente pericolosa in tutti quei casi in cui una delle persone coinvolte non sia in grado di esprimere chiaramente un no. Quando si menziona questo problema la maggior parte di noi pensa immediatamente al caso della persona ubriaca o drogata, ma gli avvenimenti del 2017 e il movimento #MeToo hanno fornito un ampio campionario di casi ugualmente problematici ma che finora avevamo quasi sempre relegato alla zona grigia del “Difficile decidere”. Mi riferisco ai casi in cui la vittima di molestie o stupro si trova nella posizione di dipendere lavorativamente e/o economicamente da chi abusa di lei o in cui, anche senza un chiaro legame economico, una delle parti è in una formale posizione di sottomissione all’altra. La legge italiana, inadeguata quanto si vuole, se non altro riconosce (timidamente) le possibili implicazioni di una situazione del genere nel disciplinare l’età del consenso, che sale da 14 a 16 anni qualora il partner del minore ricopra un ruolo che gli permetta di esercitare un certo ascendente nei suoi confronti, p.e. quando ne è l’insegnante.
A ben vedere però anche in questi casi non solo un no può rivelarsi estremamente difficile o del tutto impossibile da esprimere: non è facilissmo neanche essere certi al cento per cento che un sì sia effettivamente libero e convinto. Anche per questo motivo una certa parte del movimento femminista ha supportato l’adozione del modello di consenso c.d. “entusiasta“, in cui un sì non è necessariamente un valido indicatore di assenso a meno che non sia espresso in un certo modo. Neppure questo modello è esente da critiche (soprattutto da parte dei/delle sex worker), ma credo si possa dire che abbiamo raggiunto se non altro un accordo sui fondamentali: il consenso dev’essere validamente e liberamente espresso.
Tutto a posto quindi? Nemmeno per sogno (credo di averlo già scritto, c’è un motivo se questo blog non l’ho chiamato Raggi di sole); perché se da un lato c’è qualcuno che deve dare il proprio consenso, dall’altro c’è qualcuno che lo deve ricevere, capire, e rispettare: ed è qui in realtà che i problemi cominciano.
È sorprendente e preoccupante constatare quanti uomini sostengano ancora di non essere in grado di capire quando una donna sta dicendo di no. In parte questo è il risultato di condizionamenti culturali, come il mito dell’impossibilità di capire che cosa pensino veramente quelle strane creature che in fondo rappresentano soltanto metà del genere umano; il sistema asimmetrico di potere che rende difficile quando non addirittura pericoloso per una donna rifiutare un’avance in determinate circostanze, costringendoci a fingere per mascherare la sensazione di disagio quando veniamo infastidite (un buon thread in proposito qui); e l’idea dura a morire che ai ruoli di genere corrispondano precisi compiti nell’iniziare un approccio romantico, con l’uomo a inseguire e la donna a rifiutarsi almeno in un primo momento, perché a cedere subito sembrerebbe “una facile”. L’ovvia conseguenza è che un uomo si senta non solo autorizzato ma in qualche modo incoraggiato a ignorare un no; ed è qui che nasce a mio avviso quella profonda incomprensione che ha portato molti uomini, all’apice della discussione su #MeToo, a lamentarsi che ormai non si può più neanche flirtare: perché mentre le donne in generale tendono a interpretare il flirt come un tastare il terreno con una persona con cui è assodato esserci reciproco interesse, molti uomini lo vedono come il processo per convincere una donna non interessata che in realtà no, dai, non lo sai ancora ma ti piaccio.
Parlando specificamente di sesso, c’è un’ulteriore dimensione da considerare, ovvero l’idea che la comunicazione soprattutto verbale sia in qualche modo in antitesi con l’erotismo; o che, per dirla in maniera raffinata, un continuo blablabla te lo faccia ammosciare. Ora, è verissimo che una sessione di attività ginnica da camera non sia il momento migliore per dimostrare di avere una memoria prodigiosa recitando le vite dei filosofi uzbeki del XVI secolo; ma il sesso della vita reale non è quello da film in cui magicamente il lui e la lei di turno si strappano i vestiti di dosso, piombano sul letto, si rivoltano per un po’ e hanno orgasmi simultanei senza mai pronunciare una sola parola. Nella vita reale un minimo di comunicazione logistica è necessario e assicurarsi che la/e persona/e con cui ci si sta divertendo si stia/no, appunto, ancora divertendo fa parte di questa comunicazione di base. Sottolineo l’ancora perché un ulteriore aspetto del concetto di consenso che trovo non venga discusso abbastanza è che non viene espresso liberamente e validamente una volta per tutte, ma può essere ritirato in qualsiasi momento. Uno dei migliori riassunti del dibattito che abbia mai letto partiva proprio da questo punto e diceva più o meno: “Prova a infilargli un dito su per il cxxo senza preavviso mentre lo state facendo e noterai che capisce benissimo che cosa significhi ritirare il consenso”.
Anche in una sfera tanto privata come quella sessuale ovviamente scontiamo il peso di una marea di condizionamenti socio-culturali: le donne spesso sono riluttanti a dare indicazioni esplicite su ciò che (non) ci piace, in parte perché lo slut shaming è sempre dietro l’angolo e in parte perché ci viene inculcato che uno dei nostri compiti a letto è rassicurare il partner sulla sua prestazione (vedasi anche alla voce simulazione dell’orgasmo). Chiaro che la cosa non incoraggia un franco “Questo non mi piace, fermiamoci un attimo”.
Ciò detto, resto del parere che non diventiamo misteriosamente incapaci di comunicare in maniera selettiva e che in generale gli uomini siano perfettamente in grado di essere proattivi, verificare il consenso di una donna a ogni stadio dell’interazione, e rispettare l’eventuale scelta di sospenderlo. Il che ci lascia ovviamente a concludere che chi molesta o stupra non lo fa perché ha male interpretato un messaggio, ma perché lo ha ignorato, e questo vale anche per la famosa zona grigia degli atteggiamenti “male interpretati”: per esempio, gli uomini che si lamentano di avere paura di fare “un innocuo complimento” a una collega sanno capire benissimo se quel complimento è effettivamente tale o meno. Basta chiedergli se lo farebbero anche a un uomo.
Ci sono speranze? L’ottimista in me (sì, ce n’è una, anche se ben nascosta) direbbe che ne abbiamo eccome: in fondo è quasi tutta questione di educazione e i risultati ottenuti da quei Paesi che hanno introdotto un esauriente curriculum di educazione sessuale e alle relazioni sono alquanto incoraggianti. Ma guardando al desolante panorama politico italiano di questo periodo non ho molte ragioni per essere ottimista, perché dal tono e dal contenuto del dibattito è chiaro che ci stiamo muovendo praticamente nella direzione opposta a quella in cui dovremmo andare. Se progresso ci sarà, non sarà per mano di chi avrebbe i mezzi per accelerarlo e sostenerlo dall’alto, ma verrà dal basso; e tutti noi dobbiamo cercare di fare la nostra parte.