Stamattina La Stampa ha lanciato la rubrica “È sempre l’8 marzo”, che si propone di esplorare temi legati alla parità di genere, immagino sulla falsariga del tremendo “La 27a ora” del Corriere. L’idea di per sé mi pare interessante, ragion per cui mi fiondo subito sui primissimi articoli, e vado a cascare su un pezzo a firma Francesca Sforza, intitolato “Nella scuola italiana ci sono troppe donne!” (per la serie: l’importante è partire bene). Siccome non ho ancora capito che da quello che promette bile devo girare alla larga, me lo sono letta tutto; per fortuna non è lungo e può essere commentato in toto. Tenetevi forte.
C’è sempre qualcosa che non funziona nelle situazioni lavorative in cui un genere prevale sull’altro in modo numericamente prepotente. Si creano squilibri, dissesti e danni nel lungo termine.
Su questo siamo d’accordissimo. E immagino che in una rubrica sulla parità di genere sarà facile trovare un buon esempio di un settore a netta preponderanza maschile.
Immaginate un ambiente di lavoro in cui un solo genere occupa dall’82 al 96 per cento dei posti di lavoro disponibili. [Non ho bisogno di immaginarlo, Francesca. Lo vedo già tutti i giorni]. Vogliamo dirlo forte e chiaro? [Sì, sì, diciamolo forte e chiaro: è uno scandalo]. Nella scuola italiana ci sono troppe donne. [Quello “sbonk” è la mia mascella che impatta il pavimento]. La peculiarità dell’eccessiva femminilizzazione si concentra negli anni della materna e della primaria, continua nella scuola secondaria (dove le donne occupano un buon 65 per cento delle cattedre) per poi diradare negli insegnamenti universitari, dove le percentuali si rovesciano bruscamente, tanto che in un ateneo nobile come quello della Normale di Pisa hanno dovuto modificare il regolamento interno per far entrare qualche donna (“una situazione davvero imbarazzante”, l’aveva definita il rettore).
Okay, cerchiamo di mettere un paio di puntini sulle i. Questa “eccessiva femminilizzazione” non è una peculiarità piovuta da chissà dove, è il risultato di un’evoluzione storica ben precisa. Agli albori della scuola italiana i maestri erano in maggioranza uomini, poi la carriera scolastica è stata una delle (poche) concesse alle donne che volevano lavorare. L’accesso all’università è un altro discorso. Qui si comincia a fare sul serio, l’università non è roba da donne: troppo complessa, troppo intensiva. E poi ce le vedi a sopravvivere in una facoltà di fisica o di ingegneria, con tutta quella matematica? Per carità.
Le cause sono note: stipendi inadeguati, scarso appeal sociale, ridotte possibilità di avanzamenti di carriera, soddisfazioni e riconoscimenti relegati all’ambito della propria coscienza o comunque iscrivibili nella categoria del fatto privato.
Le cause saranno anche note, ma da come sono descritte qui non sembra. Perché detta così sembra che gli stipendi nella scuola dell’obbligo siano bassi per caso, e che noi donne, cretine, ci ostiniamo a scegliere professioni che pagano poco. Il fatto è che il rapporto di causa-effetto qui ha funzionato esattamente al contrario. Finché a farlo erano soprattutto uomini, il lavoro di maestro aveva un salario dignitoso: ma dal momento che molte delle prime donne a farlo portavano a casa il secondo stipendio della famiglia, ecco che fin dall’inizio sono state pagate meno dei loro colleghi, perché di paga uguale apparentemente non avevano bisogno. Segue circolo vizioso reclutamento donne che si possono pagare meno – stipendi che restano mediamente bassi – fuga degli uomini verso settori più remunerativi – salario insegnanti che resta inchiodato a livelli poco attraenti.
Ma a essere più preoccupanti sono forse gli effetti: che cosa succede a lungo andare in una società in cui i modelli cognitivi e la trasmissione del sapere avviene in modo tanto unidirezionale?
Tralasciamo il fatto che con doppio soggetto il verbo va al plurale. La domanda qui è: ma che accidenti stai dicendo?
Si è ragionato abbastanza sulle conseguenze di un maternage che si prolunga ben oltre gli anni del nido e dell’asilo, spingendosi fino alle elementari e spesso anche per il ciclo delle medie? Capita spesso, soprattutto alle madri dei maschi, di sentirsi dire che “il bambino è irrequieto, non sa stare fermo, si muove in continuazione”, e si trascura il fatto che – a differenza delle bambine, per le quali stare sedute a disegnare e ritagliare non rappresenta uno sforzo, ma una condizione piuttosto naturale – in molti casi i maschi hanno bisogno di un approccio più fisico alle cose, soprattutto nelle fasi del primo apprendimento.
Gira che ti rigira sempre lì andiamo a cascare, sulla presunta differenza di comportamento tra bambini e bambine. Quindi il problema non è tanto il fatto di avere molte maestre, ma una loro certa incapacità a sviluppare il proprio materiale didattico in modo da assecondare presunte caratteristiche tipicamente maschili.
Ti racconto delle mie elementari, Francesca: eravamo trenta, divisi più o meno 50/50 tra femmine e maschi; e un approccio “più fisico” alle cose, come dici tu, sarebbe stato impossibile semplicemente perché trenta bambini in una stanza o li tieni seduti o diventano ingestibili. E, miracolosamente, tutti i miei compagni maschi sono arrivati indenni alla licenza elementare senza traumi. Tra l’altro vorrei che mi spiegassi che tipo di approccio “fisico” proporresti per studiare la grammatica italiana o gli affluenti del Po, ma lasciamo stare (tra parentesi, io detestavo ritagliare e sono sempre stata una schiappa totale in disegno, ma giocavo discretamente a pallamano).
Programmi e attività si sono strutturati da decenni per rispondere a esigenze più femminili che maschili, col risultato che i bambini – in assenza di figure adulte (anche) maschili con cui rapportarsi – accumulano negli anni più frustrazioni, più fragilità (mancano dati nazionali, ma gli Uffici regionali che hanno redatto dei report parlano di un’incidenza dei disturbi scolastici molto maggiore nei maschi che nelle femmine).
Cerchiamo di filtrare un attimo questo minestrone di temi: programmi e attività sono strutturati in modo da rispondere alle esigenze delle leggi della fisica e della cronica mancanza di spazi adeguati della scuola italiana. Aggiungerei anche che se i programmi fossero strutturati per rispondere a esigenze più femminili forse gli studenti saprebbero citare qualche personaggio storico o scienziata in più oltre a Giovanna d’Arco e Marie Curie, ma non voglio infierire. Quello dell’assenza di figure di riferimento è un discorso diverso e complesso che non riguarda solo la scuola e mi sembra quantomeno azzardato indicarlo come unica causa delle fragilità degli studenti maschi, senza neppure interrogarsi sul ruolo della famiglia e dei nostri ancora troppo resistenti stereotipi di mascolinità.
Il portato di questo bagaglio, a un certo punto, si rovescia nella collettività, con risultati anche quelli noti: scarsa presenza di donne nei consigli di amministrazione delle grandi aziende, nei luoghi di responsabilità, nelle stanze dei bottoni.
Fammi capire un attimo, stiamo dicendo che la scarsa presenza di donne in CdA, luoghi di responsabilità e stanze dei bottoni è una conseguenza del fatto che ci siano troppe maestre nella scuole elementare? Really?
Escludendo che si tratti di un caso [infatti non lo è], di un incantesimo [idem], o di una vendetta di genere consumata freddissima [ma sei hai appena finito di dire esattamente questo!], forse bisognerebbe interrogarsi su quanto pesi, nella formazione prima e nella vita lavorativa poi, l’assenza di una sana mescolanza dei generi. Almeno oggi, che non è l’8 marzo.
Tantissimo, pesa. Tantissimo. Praticamente qualsiasi organizzazione internazionale pubblica rapporto su rapporto evidenziando le conseguenze sociali ed economiche dell’ancora scarsa presenza femminile in università, lavoro e politica. Per quanto mi sforzi di ricordare, però, nessuno si è sognato di dire che il nocciolo del problema sono le troppe maestre nella scuola italiana. Almeno fino a oggi, che non è l’8 marzo.