Non è voto di scambio solo perché va ad altri

La polvere elettorale non si è ancora del tutto posata, ma per i fini analisti del Terzo Polo è chiarissimo: la colpa del disastro è del reddito di cittadinanza e di chi, già ricevendolo o sperando di riceverlo, ha votato per chi lo ha introdotto e prometteva di mantenerlo. Sappiamo tutti che le dichiarazioni rese a caldo dopo una sconfitta elettorale di solito non brillano per acume, quindi non è la lamentela che mi ha colpita: è l’iperbolico “voto di scambio” usato per definire il fatto.

Capisco che, soprattutto nell’era della comunicazione digitale, siamo tutti un po’ imprecisi nell’uso delle parole; ma con “voto di scambio” si definisce un fenomeno ben preciso in cui un politico offre un vantaggio personale a un elettore, in cambio appunto del suo voto. Quando il vantaggio deriverebbe da una misura che fa parte del programma di un partito e andrebbe a beneficio di tutti gli elettori potenzialmente interessati dalla suddetta, non parliamo di voto di scambio: parliamo di campagna elettorale.

Il vero problema del Terzo Polo è che, come spesso succede, si sono dimenticati che le regole valgono per tutti: se nel tuo programma parli della necessità di costruire una settantina di termovalorizzatori, chi lavora nel settore ha un incentivo a votarti per poter eventualmente beneficiare della misura, e immagino non te ne lamenterai. Ma se un altro partito nel suo programma parla della necessità di mantenere e rafforzare il reddito di cittadinanza, e chi lo riceve o vorrebbe riceverlo vota in base all’incentivo di poter (continuare a) beneficiare di quella misura, non puoi lamentartene solo perché quei voti vanno a qualcun altro.

Il lato ironico di tutta la faccenda è il fatto che il Terzo Polo rappresenti una corrente di liberisti che dovrebbero in teoria supportare l’idea di lasciar scegliere al mercato (in questo caso delle idee) chi batterà la concorrenza. Guarda caso, però, quando il mercato decide che hanno perso l’unica cosa che sanno fare è accusare gli altri di avere barato. Non so quanti noteranno e saranno infastiditi da questo atteggiamento, ma mi auguro che per una volta il mercato sia efficiente sul serio e spazzi via tutti questi pessimi giocatori.

La mia generazione e il lavoro, un problema ancora in cerca di accettazione

Il mio primo “vero” lavoro l’ho avuto nell’ufficio di Bruxelles di una ditta italiana. Ero giovane, ingenuerrima, alla ricerca di lavoro da mesi e con l’ansia tipica di chi ha finito gli studi in un periodo di crisi finanziaria globale e ha in tasca una di quelle lauree “semi-inutili”. Per cui, quando mi hanno offerto il contratto, non ci ho dovuto pensare più di tanto. A settembre ho iniziato con lo stesso entusiasmo del primo giorno di scuola, quando rimiravi il diario e i quaderni ancora intonsi (sì lo so sono strana) ed eri quasi felice di rivedere anche quegli insegnanti che ti facevano sudare freddo.

C’era solo un piccolissimo problema: non mi pagavano in tempo. Il primo mese ho pensato ci fosse stato qualche disguido, ho mandato una mail alla segreteria e il pagamento è stato fatto. Stessa storia il mese dopo; quello dopo ancora, e quello dopo, e quello successivo, ogni volta con maggiore ritardo tra le mie mail e i versamenti. Nel frattempo il grande capo viaggia in lungo e in largo, ogni mese viene a Bruxelles per qualche giorno, trovare i fondi per questa attività non sembra un problema.

Mi faccio due conti. Non ho il temperamento necessario a fare piazzate una volta al mese e mi provoca rigetto l’idea stessa di dover minacciare per ottenere quello che mi spetta. Inizio a guardarmi incontro, trovo un altro lavoro e verso la fine del periodo di prova annuncio le dimissioni. Il grande capo mi urla addosso, tenta di farmi credere che devo dare un periodo di preavviso più lungo di quello a cui sono legalmente tenuta, mi attacca il telefono in faccia. Nonostante questo e sempre per ingenuità, alla fine del periodo di preavviso accetto di restare una settimana in più per aiutare a chiudere un progetto: il compenso per quei giorni extra non l’ho mai visto.

Non c’è una morale in questo post, è più che altro uno sfogo scoraggiato; perché leggendo varie storie di questi ultimi giorni mi sono resa conto che sono passati quasi quindici anni da quel primo contratto, e non è cambiato granché. Anzi, probabilmente devo ritenermi fortunata perché chiedendo lumi del mio stipendio a distanza nessuno mi ha mai messo le mani addosso per aver osato porre la questione. Non so quando le cose abbiano iniziato ad andare così storte che adesso pensiamo sia normale aspettarsi gratitudine da chi ha un lavoro, e che chiedere un salario congruo sia considerato esoso. So solo che va avanti da troppo tempo, e quello che mi spaventa è che con questi presupposti continuerà anche a mancare la volontà di intervenire a livello sistemico per raddrizzare la rotta. I difetti del programma degli Alcolisti Anonimi sono noti da tempo, ma il primo passo resta valido: per risovere un problema, devi prima ammettere la sua esistenza.

“Rischio di dire una cosa impopolare, lo so”… ma di femminismo non dovrebbe parlare chiunque

Trattandosi di Alessandro Barbero, è appropriato parlare di corsi e ricorsi storici. Assistiamo periodicamente all’ascesa e caduta mediatiche di vari intellettuali secondo uno schema ormai consolidato: uno studioso guadagna una certa (in genere meritata) notorietà parlando di argomenti su cui lavora e che quindi conosce bene. Un po’ per via dell’halo effect, un po’ perché appena i media fiutano un acchiappa-click non lo mollano più, lo studioso diventa un personaggio; inizia ad apparire in tutte le salse per dire la sua su una serie di argomenti sempre più lontani dal suo campo, finché non inciampa più o meno rovinosamente su un soggetto di cui non sa nulla. I suoi ammiratori ci restano male per un po’, poi il ciclo ricomincia con un altro luminare.

Stavolta è appunto toccato al professor Barbero, che alla domanda “Come mai le donne faticano tanto non solo ad arrivare al potere, ma anche ad avere pari retribuzione o fare carriera?” ha risposto: “Premesso che io sono uno storico e quindi il mio compito è quello di indagare il passato e non presente o futuro, posso rispondere da cittadino che si interroga sul tema. Di fronte all’enorme cambiamento di costume degli ultimi cinquant’anni, viene da chiedersi come mai non si sia più avanti in questa direzione. Ci sono donne chirurgo, altre ingegnere e via citando, ma a livello generale siamo lontani da un’effettiva parità in campo professionale. Rischio di dire una cosa impopolare, lo so, ma vale la pena di chiedersi se non ci siano differenze strutturali fra uomo e donna che rendono a quest’ultima più difficile avere successo in certi campi. È possibile che in media le donne manchino di quella aggressività, spavalderia e sicurezza di sé che aiutano ad affermarsi? Credo sia interessante rispondere a questa domanda. Non ci si deve scandalizzare per questa ipotesi, nella vita quotidiana si rimarcano spesso differenze fra i sessi”.

Onestamente, non credo valga la pena di analizzare questa uscita frase per frase e spiegare in dettaglio quanto e perché sia sbagliata (mi limito a notare che anche la domanda partiva male, impostando la questione come se il problema fossero le donne che “faticano” a emergere e non il sistema che le fa impantanare. La soluzione sta lì).

Il punto fondamentale per me è questo: dobbiamo smetterla di considerare il femminismo come un argomento su cui chiunque possa dire la sua anche senza preparazione alcuna. Ne ho già scritto in passato, il femminismo è un movimento politico e sociale con diverse correnti di pensiero e sfumature. Pensare che non sia necessario familiarizzarsi un minimo con la sua ideologia e storia per poterne parlare è fondamentalmente sminuirlo: trattarlo come “roba da donne” su cui chiunque può aprire bocca, perché in fondo non è una cosa seria.

Teoriche e attiviste femministe hanno scritto, analizzato, discusso e proposto soluzioni per tutti gli aspetti del gender gap menzionati da Barbero, e lo fanno da decenni. Sono dispostissima a concedergli il beneficio del dubbio e partire dal presupposto che quel suo “È possibile che…” sia espresso in forma di domanda proprio perché è genuinamente ignorante di tutto il materiale prodotto sul tema, anziché limitarsi a fingere che non esista. Ma proprio perché non ne sa, dovrebbe astenersi dall’esprimere giudizi disinformati; non solo non c’è nulla di male nel dire “Non lo so”, ma è anche un’ottima opportunità: di solito è il primo passo necessario per imparare qualcosa.

Il ragazzo col Rolex nell’arena dei leoni

Sulla vicenda Roman Pastore, anche noto a noi odiatori sociali come “Il ragazzo col Rolex”, hanno già scritto in tanti, e gli aspetti sociologici della faccenda sono stati sviscerati fino alla nausea. Aggiungo i miei due centesimi non richiesti su un aspetto piuttosto specifico su cui non mi è capitato di leggere alcunché (ed è interamente possibile che sia perché me lo sono persa io).

Come sempre in questi casi, la velocità e semplicità del mezzo digitale hanno reso possibile raggiungere quel volume di commenti che crea un effetto valanga e che spesso viene definito “linciaggio mediatico” da chi si trova a esserne il destinatario. Il mentore politico di Pastore, Carlo Calenda, ha difeso a spada tratta il suo protégé sciorinando tutti i migliori luoghi comuni sugli odiatori da social che lo avevano costretto a rendere privati i suoi profili su varie piattaforme e probabilmente a ritirarsi in un convento di cappuccini.

Ora, è verissimo che la notorietà, o anche solo la riconoscibilità, sembrano risvegliare nella maggior parte di noi spettatori l’idea che la nostra opinione sulla persona in questione sia indispensabile, e che vada condivisa con un pubblico il più vasto possibile. Si può, e personalmente credo si dovrebbe, discutere se sia o meno una reazione utile o desiderabile (spoiler: no); ma, cercando di essere realisti, questa è la situazione al momento. Non appena diventi “un personaggio”, una marea di perfetti sconosciuti si sentirà in diritto di esprimere pareri su di te e su ogni aspetto della tua vita di cui verranno a conoscenza.

E quindi mi chiedo: perché diamine, oltre che fustigare questi commentatori, Calenda non si interroga sulle proprie responsabilità? Ti candidi a sindaco di Roma; compili la lista dei candidati consiglieri (su cui mi rifiuto di pensare che tu, appunto in qualità di candidato sindaco, non abbia l’ultima parola); arrivi al nome di un ventunenne di belle speranze con una presenza social chiaramente mirata a creare un certo tipo di immagine, e non ti poni due domande su quello che potrebbe succedere? Certo, abbiamo il beneficio del senno di poi; ma chiunque abbia lavorato in un ambito anche solo lontanamente legato alla comunicazione si sarebbe posto una serie di domande. Qual è il “viso pubblico” di questo candidato? Che tipo di reazioni potrebbe provocare? Potrebbe essere strumentalizzato in qualche modo? Nel caso, abbiamo pronta una risposta? E, cosa ancora più importante, riteniamo che possa reggere l’eventuale pressione?

Io non sono una fan dell’approccio per cui il mondo là fuori è una giungla che seleziona i più abili e questa è cosa buona e giusta perché ti garantisce che solo i migliori possano arrivare in cima. Ma sono anche sufficientemente realista (o cinica) da sapere che la politica odierna è per molti versi una giungla, e che richiede una notevole capacità di sopportare pressioni immense e sì, spesso anche commenti ingiusti che scadono nel personale. Calenda tutto questo lo sa benissimo, come doveva sapere che mettendo Roman Pastore in lista lo esponeva al rischio di attacchi. Forse lo ha fatto comunque perché è mancato il processo di riflessione che ho descritto nel paragrafo precedente; forse lo ha fatto comunque perché da uomo bianco benestante ha sottovalutato il fatto che anche un giovane uomo bianco e benestante non è (più) del tutto intoccabile. Qualsiasi sia il motivo, ha deciso di mettere Roman Pastore in lista, e adesso si rifiuta di ammettere che parte della responsabilità di quanto successo è sua.

Ne avevo accennato parecchio tempo fa: se vieni messo in una posizione di relativo potere e privilegio, ci si aspetta che tu sia in grado di gestirla con tutto quello che ne consegue. Se metti un ventunenne in lista per il consiglio municipale di una città complicata come Roma, dovrebbe essere perché ne hai considerato le capacità di potenziale consigliere e hai concluso che sì, sarebbe in grado di svolgere bene il suo mandato. Se è capace di fare questo, di fare politica nel mondo di oggi, allora dev’essere anche capace di gestirne gli aspetti sgradevoli – ed è tuo dovere interrogarti al riguardo.

Non sono felice del fatto che sembriamo avere accettato come normale l’idea che l’impegno politico e l’attivismo più in generale ti trasformino in un bersaglio per il tiro a segno; né credo che sommergere di critiche un ragazzo ancora giovane e che dovrebbe avere più tempo per sbagliare, imparare e migliorarsi sia un modo particolarmente efficace di contribuire alla discussione. Ma non puoi frequentare un’arena di leoni per anni, decidere di buttarci una persona inesperta, e poi cadere dal pero e prendertela con i leoni quando finisce sbranato.

Il decoro, continuo cavallo di Troia delle idee bacate

Qualche tempo fa ho scritto un post sull’arbitrarietà dei dress code e il modo in cui vengono usati per continuare a motivare discriminazioni non più giustificabili in altro modo (incidentalmente, e non per vantarmi di alcuna dote profetica che metterei a buon frutto in altro modo se per caso ne avessi, un buon esempio di questa dinamica è quanto accaduto recentemente in Nuova Zelanda).

Ho avuto occasione di ripensare all’argomento da un’altra prospettiva nei giorni scorsi, in seguito alla caduta del governo e conseguente rimaneggiamento del Consiglio dei Ministri che ha portato alla nomina di Giancarlo Giorgetti e Marta Cartabia come ministri rispettivamente dello sviluppo economico e della giustizia. Credo che i commenti in proposito mostrino bene l’altra faccia della medaglia del “decoro” e cioè il modo in cui, se da un lato la sua supposta assenza è usata per giustificare esclusione, dall’altro la sua presenza sembra sufficiente a sopperire a ogni mancanza anche significativa.

Giorgetti è politicamente cresciuto nelle fila del Fronte della Gioventù (vale a dire MSI), per poi passare alla Lega con cui è stato eletto per la prima volta nel lontano 1996; è stato indagato nell’ambito delle indagini per la bancarotta della Credieuronord; e quando è stato oggetto di un tentativo di corruzione si è “accontentato” di rifiutare la mazzetta senza però preoccuparsi di denunciare l’accaduto. Marta Cartabia è ciellina e non stupirà quindi apprendere che si è dichiarata contraria all’aborto, all’eutanasia, ai matrimoni e all’adozione di coppia per persone dello stesso sesso.

Mi ha quindi stupita parecchio (ingenua io, lo so) il fatto che le loro nomine abbiano raccolto parecchi consensi anche a sinistra, all’insegna del “Se non altro sono competenti”, “Se proprio ci deve essere un leghista meglio uno presentabile”, e l’immancabile “Beh ma guardate chi c’era prima”. Occupiamoci subito di quest’ultimo commento: valore relativo e valore assoluto sono due cose diverse ed è stupefacente che nel 2021 ci sia ancora bisogno di spiegarlo. Se le idee della ministra Cartabia significano che considera intere categorie di cittadini come di serie B e questo la rende inadatta per il Ministero della Giustizia, è del tutto irrilevante che quel Ministero prima sia stato in mano a Homer Simpson, Pluto, o un Furby ubriaco. La ministra Cartabia può segnare un relativo miglioramento rispetto al suo predecessore, ma resta inadeguata al ruolo.

Quello che mi ha fatta ripensare al discorso del decoro però sono stati gli altri commenti, quelli per cui sì, magari un ministro leghista o ultracattolico non è proprio il massimo, ma se non altro ha i titoli giusti e si presenta bene. Pare che siamo ancora talmente obnubilati dal concetto di decoro che di fatto lo facciamo prevalere sulla sostanza, anche quando questa è motivo di preoccupazione concreta. Il ministro Giorgetti sarà anche abile a presentarsi come parte dell’ala “moderata” della Lega, ma fa parte da decenni di un partito populista di destra a volte estrema in cui evidentemente si trova a proprio agio o le cui posizioni non trova repellenti al punto da doversene allontanare. La ministra Cartabia avrà anche collezionato titoli di studio, incarichi prestigiosi e pubblicazioni autorevoli, ma trova perfettamente normale negare alle donne il diritto all’autodeterminazione, alla comunità LGBT la piena fruizione dei diritti civili, e a tutti noi il diritto di scegliere in autonomia come e quando lasciare questa valle di lacrime. Non trovo normale che, con questo su un piatto della bilancia, il “decoro” dall’altra parte sia apparentemente sufficiente a portarla in equilibrio. Lo trovo anche pericoloso, nel senso che ci fa abbassare la guardia proprio quando dovremmo stare ancora più attenti.

È facile notare quanto siano problematiche la Lega e le sue politiche quando le associamo a esagitati con in testa elmi da vichingo fallito; ma restano problematiche anche quando si nascondono dietro a un laureato della Bocconi che si riempie la bocca di atlanticismo. È facile riconoscere quanto sia ributtante l’idea che l’orientamento sessuale giustifichi discriminazioni se la troviamo sulle pagine del Timone o della Nuova Bussola Quotidiana; ma non è che essere espressa da un’ex giudice della Corte Costituzionale la renda più accettabile. Ed è proprio questa la trappola in cui rischiamo di cadere se non impariamo ad andare oltre lo stramaledetto decoro: le idee bacate restano tali indipendentemente dalla presentabilità di chi le veicola. Se ci accontentiamo di questa presentabilità, rischiamo di accorgerci troppo tardi che ha fatto da cavallo di Troia a proposte che nel discorso politico non dovrebbero (ri)entrare mai più.

Non si può sradicare la violenza se delle donne non ci importa poi granché

Oggi è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne e, siccome il 2020 deve continuare a essere il 2020, nei giorni scorsi ci siamo preparati superando noi stessi quanto a schifo. Una donna le cui immagini private sono state diffuse senza il suo consenso dall’ex fidanzato (no, non si chiama revenge porn) è stata, nell’ordine: esposta al pubblico ludibrio; licenziata dal suo impiego di maestra d’asilo; e, nel più classico e scontato dei rivolgimenti di frittata, indicata come la principale responsabile dell’accaduto. Lo stesso è accaduto alla vittima della violenza sessuale di alto profilo mediatico venuta alla luce più o meno in contemporanea, tacciata di imprudenza o peggio da quegli stessi cronisti a cui è sembrato perfettamente normale omaggiare il suo stupratore come “mago delle start-up“.

Quasi negli stessi giorni moriva in Inghilterra Peter Sutcliffe, meglio noto come lo Yorkshire Ripper e responsabile di tredici femminicidi (nonché sette tentativi falliti) verso la fine degli anni Settanta. Ci sono state parecchie proteste contro il modo in cui la notizia è stata annunciata, incentrando tutta la copertura mediatica sul pluriomicida senza quasi dare spazio alle storie delle sue vittime. Il Guardian gli ha addirittura dedicato un necrologio dello stesso tipo di quelli che normalmente ricordano artisti o sportivi. La vicinanza tra questi episodi mette bene in rilievo quel terribile doppio standard che ancora applichiamo legando il valore di un essere umano al suo genere.

Diciamo subito che una minima e istintiva reazione di victim-blaming è abbastanza fisiologica e dobbiamo saperla prevedere. Julia Shaw in Making Evil ha spiegato molto bene come funziona il meccanismo per cui, quando capita qualcosa di brutto, tendiamo ad attribuire almeno parte della responsabilità alla vittima: agli esseri umani piace avere la sensazione che le cose accadano per un ben preciso motivo, e che siamo in grado di controllare le nostre vite. Quando qualcuno è vittima di un incidente o una disgrazia tendiamo a proteggerci dall’idea che la stessa cosa possa succedere anche a noi attribuendo parte della causa al comportamento di quella persona: “Probabilmente le è successo X perché ha fatto Y. Ma visto che io mi comporto in maniera diversa, guardandomi bene dal fare Y, a me non potrà certo succedere lo stesso”. Il problema è che nel caso di donne vittime di violenza questo meccanismo sfugge completamente di mano, soprattutto quando si va a toccare la sfera delle relazioni intime ai tempi del digitale – un terreno ricco di opinioni ferme al Pleistocene di cui avevo già avuto occasione di parlare qui (quattro anni fa, e non è cambiato praticamente nulla).

È guardandoli uno di fianco all’altro che l’abisso tra questi eventi diventa evidente: una donna adulta si trova in una situazione in cui non fa nulla (ribadiamolo, nulla) di sbagliato e vede comunque la sua privacy orribilmente violata, il suo lavoro compromesso, e la sua vita esposta al giudizio altrui. Un’altra giovane donna subisce violenza prima da un uomo e poi da tutte quelle persone che gliene addossano la colpa. Nel frattempo un uomo che ha ucciso tredici donne e devastato la vita di decine e decine di persone torna agli onori della cronaca al momento della morte, come se ci fosse stato nella sua esistenza un qualcosa meritevole di ricordo nazionale. Né si tratta di un caso isolato: basti pensare al documentario su Ted Bundy che Netflix ha astutamente lanciato nel trentennale della sua esecuzione per un numero imprecisato di femminicidi (non sappiamo nemmeno quante donne abbia ucciso!), o al fatto che a Jack lo Squartatore è stato dedicato un museo (sì, lo so, ufficialmente l’idea è fornire uno spaccato della Londra dell’epoca eccetera eccetera. Se ci credete davvero posso solo dirvi che siete dei tonni e che se siete seriamente interessati all’argomento dovreste piuttosto andare a leggervi The Five di Hallie Rubenhold).

Perché questa mostruosa disparità? Perché restiamo indifferenti al fatto che donne innocenti continuino a essere doppiamente punite per atti di violenza maschile, mentre anche ai più efferati misogini dedichiamo tempo, attenzione ed energie nello sforzo di “comprenderli”? La filosofa Kate Manne la chiama himpathy – l’esagerato simpatizzare con gli uomini, spesso già famosi di loro, che vengono accusati di violenza. E non ci può essere himpathy senza una gerarchia di genere: senza pensare, per dirla crudamente, che le donne valgano – e quindi contino – di meno. È per questo motivo che i casi di stupro “famosi” degli ultimi anni sono stati una serie di “He said / she said / and she / and she / and she…”, come se la testimonianza di una donna avesse effettivamente una frazione del peso di quella di un uomo. È per questo che Peter Sutcliffe venne fermato, interrogato e rilasciato per ben nove volte mentre la polizia continuava a ignorare gli identikit pressoché perfetti forniti dalle donne che erano riuscite a sfuggirgli. È per questo che la cronaca dei sessanta femminicidi avvenuti in Italia dall’inizio dell’anno è punteggiata di appelli inascoltati, denunce ignorate, richieste d’aiuto disattese. È per questo che persino durante un processo per uxoricidio la nostra attenzione si appunta non sull’uomo che ha strangolato la moglie per quattro minuti di fila per poi bruciarne il cadavere, ma sugli sms “insultanti” che lei gli aveva mandato.

Non risolveremo mai il problema della violenza sulle donne se continuiamo a pensare che siano esseri umani di serie B. Cambiare modo di pensare sarà lungo e difficile ma indispensabile, ed è una responsabilità collettiva fare in modo che accada. Non si “è” contro la violenza sulle donne limitandosi a condannarla in termini generali e a gloriarsi del fatto di non aver mai alzato le mani (e già il fatto che ci siano uomini convinti di meritare l’applauso per una cosa del genere dovrebbe farci riflettere su quanto siamo messi male). Ci si attiva contro la violenza sulle donne, aiutando a smantellare la narrazione distorta che la rende possibile, ed è solo il minimo sindacale: al di sotto di quello non resta che la complicità.

Sul cambiamento si può mettere la firma (e basta)?

Il cervello umano, si sa, ha la tendenza a individuare modelli e stabilire collegamenti arbitrari tra eventi e situazioni anche quando magari non ce ne sono.

Evento 1: durante le prime settimane della pandemia, abbiamo sentito ovunque il messaggio “Ne usciremo migliori”, vuoi per l’inevitabile bisogno di positività in un momento difficilissimo, vuoi perché effettivamente quelle prime settimane sono state caratterizzate anche da un’ondata di solidarietà spontanea che faceva ben sperare per il futuro. Così non è stato, e siamo ritornati rapidamente al “Ciascuno per sé” che sembra essere il principio guida della nostra era.

Evento 2: sta circolando in questi giorni una petizione su Change.org, indirizzata al Consiglio dei Ministri italiano in supporto del cosiddetto Piano Amaldi. Se la cosa non è arrivata nella vostra bolla social e avete bisogno di un riassunto, il Piano viene presentato come un documento programmatico per l’aumento dell’investimento italiano nella ricerca di base. Al momento della stesura di questo post, la petizione aveva raccolto 7.800 firme e rotti.

piano_amaldi

Ora giustamente vi chiederete come sia riuscito il mio cervello a vedere un collegamento tra questi due eventi; credo che a far emergere il processo dal mio subconscio sia stato questo commento rilanciato dal promotore della petizione, che esorta il pubblico a firmarla al grido di “Se vuoi lamentarti, almeno agisci!”.

Ecco, scusate il cinismo: ma da quando firmare una petizione equivale ad agire? Negli ultimi anni, complice la facilitazione tecnologica del processo, la raccolta di firme sembra una tappa obbligata per sostenere qualsiasi causa (secondo il rapporto 2018 di Change.org, solo su questa piattaforma vengono avviate 25.000 petizioni ogni mese). Ed è facile intuire il perché: firmare una petizione online richiede pochi minuti, si può fare comodamente da casa, e di solito è per un obiettivo giustissimo. Chi non è a favore della ricerca di base, della lotta alla crudeltà sugli animali, della giustizia per le vittime di violenza?

Il problema è che, di solito, il coinvolgimento finisce lì. Firmiamo una lodevole petizione, ci diamo una pacca sulla spalla per aver fatto la differenza, e crediamo di essere a posto così. Spoiler: le petizioni, da sole, non cambiano quasi mai nulla. Possono essere un utile primo passo per amplificare la portata di una determinata causa ma di solito i cambiamenti a una legge, alla policy di una compagnia, alla decisione di un governo, arrivano dopo campagne coordinate da gruppi organizzati e che spesso hanno una durata abbastanza lunga.

Ecco, io non credo che, per quanto ammirevole, il fatto di firmare sulla linea tratteggiata e spesso a scatola chiusa* possa essere rivendicato come azione a favore della causa X. Scendere in piazza, volantinare, offrire sostegno finanziario o modificare le proprie scelte di consumatore, votare in una determinata maniera… sono azioni. Firmare una petizione e aspettarsi che le cose cambino, e magari pensare pure di aver contribuito significativamente a farle cambiare, per me è un po’ come credere nella magia. E qui torniamo all’Evento 1 (di cui, confessatelo pure, vi eravate completamente dimenticati): in quel “Ne usciremo migliori” c’era esattamente la stessa malriposta fede nella capacità di un intervento esterno di cambiare la situazione in positivo senza alcuno sforzo da parte nostra. A mente fredda è chiaro che si trattava di un’illusione: se abbiamo passato anni a pensare che contiamo solo noi e la nostra cerchia ristretta, a infischiarcene del bene comune, a considerare la gentilezza come un segno di debolezza, come siamo riusciti a convincerci che saremmo emersi dal lockdown profondamente cambiati? Eccolo il collegamento: l’idea che firmare una petizione o aspettare il ritorno alla normalità equivalgano ad agitare una bacchetta magica, e che dopo aver contato fino a tre troveremo un mondo migliore. Come se applaudire sul balcone avesse il potere di salvare non solo le fate, ma anche noi stessi.

*[A proposito di scatola chiusa e Piano Amaldi, per esempio, è interessante notare come la petizione contenga il link al documento di cui il suddetto piano fa parte: una ponderosa raccolta di proposte elaborate dal Cortile dei Gentili. Ora, quanti dei firmatari saprebbero dire se il sostegno al contributo del Prof. Amaldi debba essere interpretato come appoggio al documento in toto? Quanti di loro ne hanno letto tutte le quasi centocinquanta pagine? Quanti sono a conoscenza del fatto che il Cortile dei Gentili sia un comitato creato e diretto dalla Santa Sede, al momento presieduto da Monsignor Ravasi?]

Il problema è il code, non il dress – Di abbigliamento, regole, ed esclusione

Un paio di settimane fa una visitatrice mancata ha postato una lettera aperta al Museo d’Orsay, spiegando il proprio disappunto all’essersi vista rifiutare l’ingresso per via di una non meglio specificata “infrazione alle regole” che si era poi rivelata essere il disagio di una guardiana per la sua scollatura. Sono seguite scuse ufficiali e, ovviamente, una marea di polemiche.

Più o meno negli stessi giorni, due scuole italiane sono salite agli orrori (sic) della cronaca per le alzate d’ingegno delle rispettive dirigenti – l’imposizione di una divisa rigidamente di genere in un caso, il divieto di minigonne nell’altro – e soprattutto per le giustificazioni delle suddette: la gonna servirebbe a inculcare a studentesse e studenti che “il corpo femminile richiede profondo rispetto ed ossequio della sua dignità e personalità”, ma d’altra parte senza essere troppo corta onde evitare che ai professori “cada l’occhio”.

Io mi aspettavo che, una volta raccolte le braccia da terra, avremmo se non altro potuto utilizzare questi avvenimenti come spunto di riflessione per mettere finalmente in discussione il concetto stesso di dress code; invece pare che ci siamo arenati in un pantano di “Eh ma se le regole sono quelle” e “Basta guardare come vanno in giro le ragazzine”.

Trovo preoccupante la passività con cui sembriamo ancora accettare l’idea che le giovani donne debbano in qualche modo gestire preventivamente al posto loro i comportamenti degli uomini, giovani o meno, che si ritrovano intorno; oltretutto con l’aggravante che, nel caso di adulti di professione insegnante, è inammissibile insinuare che se “gli cade l’occhio” questo sia in qualche modo un problema delle loro studentesse: se trovarti in presenza di una giovane donna ti provoca pulsioni incontrollabili e non hai nemmeno la scusa di avere sedici anni ed essere un sacco deambulante di ormoni, non puoi fare un lavoro che ti richieda di passare del tempo in presenza di giovani donne. Ma non sia mai che cogliamo una buona opportunità per spostare finalmente la questione della responsabilità dal corpo femminile al comportamento degli uomini.

Anche nel caso del Museo d’Orsay abbiamo perso un’occasione: non solo perché la poveretta rimbalzata all’ingresso è stata poi prevedibilmente inondata di commenti e giudizi non richiesti sul suo corpo e abbigliamento, ma anche perché la discussione si è arenata sulla questione dell’esistenza o meno di un dress code per accedere al museo. Ho avuto la sensazione che anche chi ha preso partito a favore della ragazza lo abbia fatto perché, in effetti, il Museo d’Orsay non proibisce esplicitamente l’ingresso a persone vestite in una determinata maniera. Come a dire che, se ci fossero delle regole, non sarebbe stato un problema applicarle.

Ecco, in questo caso a me sembra che il problema, invece, stia proprio nell’esistenza delle regole stesse. I dress code sono strumenti di esclusione per definizione: chi non è abbigliato in un certo modo si vede negato l’accesso a una scuola, un luogo di lavoro o di svago. Eccettuato il caso dell’equipaggiamento protettivo per certi lavori, però, non c’è alcuna considerazione pratica che giustifichi questa continua esclusione – specialmente quando abbiamo ampia dimostrazione del fatto che i dress code vengano applicati in maniera non uniforme e che minoranze, donne, e disabili vengano penalizzati molto più spesso per (supposte) violazioni.

Né c’è da stupirsi: i dress code sono retaggi di un periodo infelice in cui negare diritti a donne, poveri e minoranze assortite era perfettamente normale e legale. Sono arbitrari per natura e riflettono un concetto di “decoro” per forza di cose parziale. Il resto del mondo è andato avanti, sia pure a rilento, e la discriminazione aperta non è più accettabile: perché quindi non cogliamo l’occasione per esaminare la questione dell’abbigliamento a mente aperta, e riconoscere che molte delle regole che abbiamo accettato supinamente fino a oggi possono essere tranquillamente lasciate alle tarme?

“Why bother, dear?” – Criticism of Greta Thunberg is nothing new to feminists

For feminists, one of the least surprising reactions to the Greta Thunberg phenomenon was that of a certain category of men: mostly white, mostly middle-aged, mostly conservative. That particular blend of patronizing and mocking is something we have often heard ourselves: when a professor reminds us how young and inexperienced we are; when an older colleague belittles our idea in a meeting; when an uncle condescends that yes, [insert feminist issue] is important, but surely there’s no need to go banging on about it so much and so loudly?

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Il problema della Brigata Voltaire: perché il razzismo non è questione di libertà d’espressione

Un professore dell’Università di Siena pubblica ripetutamente post con affermazioni antisemite e di difesa delle idee naziste. L’Università non ritiene di doversi attivare, salvo andare nel panico e annunciare (per ora solo quello) provvedimenti quando un numero sufficiente di internauti solleva il problema. E inevitabilmente, appena la tempesta ha iniziato a montare, si è palesata la “Brigata Voltaire” per la difesa a oltranza di quella che chiamano libertà di espressione, intendendo in realtà (ma senza saperlo) “libertà di dire la qualunque senza conseguenza alcuna”. È scoraggiante che nell’anno quasi 2020 dobbiamo ancora spiegare concetti abbastanza elementari, ma eccoci qui.

Prima di tutto: garantire la libertà di espressione è un obbligo dello Stato nei confronti dei propri cittadini, che non può perseguire o discriminare per le loro opinioni. Ciò non significa che non possa prendere alcuna altra misura quando il contenuto di quelle opinioni danneggia altre persone. Persone come Emanuele Castrucci sono e restano libere di esprimere pubblicamente idee razziste: ma non sono libere, nel senso di esentate, dalla responsabilità di quello che dicono.

Secondo punto: dobbiamo inchiodarcelo nel cranio una volta per tutte, il linguaggio è una componente integrante e fondamentale del sistema di discriminazione. I post del professor Castrucci contengono falsi storici e affermazioni rivoltanti che per secoli sono state usate per giustificare discriminazioni di massa e atrocità culminate nell’Olocausto, e che contribuiscono al mantenimento della società razzista in cui viviamo ancora oggi. Anche ammettendo che l’atto di scriverli e postarli sia coperto dal principio di libertà di espressione (che, ribadiamolo, pone dei limiti all’azione statale e non ai termini e condizioni stabiliti da una piattaforma online per l’uso dei suoi servizi), il loro contenuto può e deve essere messo in discussione. La difesa delle minoranze passa anche da questo.

Terzo, il responsabile al centro di questo caso è professore universitario: lasciando perdere le considerazioni su come diamine abbia fatto a diventarlo quando è palese che non saprebbe riconoscere il pensiero critico nemmeno se lo mordesse sul naso, il ruolo che ricopre rafforza il potenziale negativo delle sue affermazioni. È ovviamente una pessima esperienza per una persona appartenente a una minoranza venire presa a male parole sull’autobus: ma è infinitamente peggio se l’aggressione viene da chi siede dietro a una cattedra e può esercitare su di te il potere che quella posizione gli conferisce. Inoltre, come spiegato fra altri dalla sociologa americana Jennifer Eberhardt nel suo recente libro Biased, le idee discriminatorie sono molto più “convincenti” e pervasive quando vengono assunte da persone in posizione di autorità.

Il problema dei post del professor Castrucci, dunque, non è il fatto che le sue libere opinioni offendano qualcuno – e dobbiamo smetterla di utilizzare il termine “offensivo” come se il nocciolo della questione fosse la sensibilità personale di chi di quelle opinioni è il bersaglio. Il problema è che contribuiscono a mantenere in essere e rinforzare il sistema di discriminazione e ingiustizie che rende impossibile alle minoranze godere di quell’uguaglianza che dovremmo tutti avere. E non è irragionevole temere che il professor Castrucci abusi della sua posizione di relativo potere per applicare in pratica quelle opinioni razziste che diffonde così liberamente online.

Difendere un suo presunto diritto a continuare indisturbato su questa strada non è schierarsi a favore della libertà di espressione: è fraintenderne il significato e finire per coprire le spalle a chi cerca di rendere il mondo un posto peggiore. Se sono idee spregevoli, il punto non è impedire che vengano espresse o meno: è impedire che chi le esprime possa poi fingere di non avere nulla a che fare con le loro conseguenze.