Il cervello umano, si sa, ha la tendenza a individuare modelli e stabilire collegamenti arbitrari tra eventi e situazioni anche quando magari non ce ne sono.
Evento 1: durante le prime settimane della pandemia, abbiamo sentito ovunque il messaggio “Ne usciremo migliori”, vuoi per l’inevitabile bisogno di positività in un momento difficilissimo, vuoi perché effettivamente quelle prime settimane sono state caratterizzate anche da un’ondata di solidarietà spontanea che faceva ben sperare per il futuro. Così non è stato, e siamo ritornati rapidamente al “Ciascuno per sé” che sembra essere il principio guida della nostra era.
Evento 2: sta circolando in questi giorni una petizione su Change.org, indirizzata al Consiglio dei Ministri italiano in supporto del cosiddetto Piano Amaldi. Se la cosa non è arrivata nella vostra bolla social e avete bisogno di un riassunto, il Piano viene presentato come un documento programmatico per l’aumento dell’investimento italiano nella ricerca di base. Al momento della stesura di questo post, la petizione aveva raccolto 7.800 firme e rotti.
Ora giustamente vi chiederete come sia riuscito il mio cervello a vedere un collegamento tra questi due eventi; credo che a far emergere il processo dal mio subconscio sia stato questo commento rilanciato dal promotore della petizione, che esorta il pubblico a firmarla al grido di “Se vuoi lamentarti, almeno agisci!”.
Ecco, scusate il cinismo: ma da quando firmare una petizione equivale ad agire? Negli ultimi anni, complice la facilitazione tecnologica del processo, la raccolta di firme sembra una tappa obbligata per sostenere qualsiasi causa (secondo il rapporto 2018 di Change.org, solo su questa piattaforma vengono avviate 25.000 petizioni ogni mese). Ed è facile intuire il perché: firmare una petizione online richiede pochi minuti, si può fare comodamente da casa, e di solito è per un obiettivo giustissimo. Chi non è a favore della ricerca di base, della lotta alla crudeltà sugli animali, della giustizia per le vittime di violenza?
Il problema è che, di solito, il coinvolgimento finisce lì. Firmiamo una lodevole petizione, ci diamo una pacca sulla spalla per aver fatto la differenza, e crediamo di essere a posto così. Spoiler: le petizioni, da sole, non cambiano quasi mai nulla. Possono essere un utile primo passo per amplificare la portata di una determinata causa ma di solito i cambiamenti a una legge, alla policy di una compagnia, alla decisione di un governo, arrivano dopo campagne coordinate da gruppi organizzati e che spesso hanno una durata abbastanza lunga.
Ecco, io non credo che, per quanto ammirevole, il fatto di firmare sulla linea tratteggiata e spesso a scatola chiusa* possa essere rivendicato come azione a favore della causa X. Scendere in piazza, volantinare, offrire sostegno finanziario o modificare le proprie scelte di consumatore, votare in una determinata maniera… sono azioni. Firmare una petizione e aspettarsi che le cose cambino, e magari pensare pure di aver contribuito significativamente a farle cambiare, per me è un po’ come credere nella magia. E qui torniamo all’Evento 1 (di cui, confessatelo pure, vi eravate completamente dimenticati): in quel “Ne usciremo migliori” c’era esattamente la stessa malriposta fede nella capacità di un intervento esterno di cambiare la situazione in positivo senza alcuno sforzo da parte nostra. A mente fredda è chiaro che si trattava di un’illusione: se abbiamo passato anni a pensare che contiamo solo noi e la nostra cerchia ristretta, a infischiarcene del bene comune, a considerare la gentilezza come un segno di debolezza, come siamo riusciti a convincerci che saremmo emersi dal lockdown profondamente cambiati? Eccolo il collegamento: l’idea che firmare una petizione o aspettare il ritorno alla normalità equivalgano ad agitare una bacchetta magica, e che dopo aver contato fino a tre troveremo un mondo migliore. Come se applaudire sul balcone avesse il potere di salvare non solo le fate, ma anche noi stessi.
*[A proposito di scatola chiusa e Piano Amaldi, per esempio, è interessante notare come la petizione contenga il link al documento di cui il suddetto piano fa parte: una ponderosa raccolta di proposte elaborate dal Cortile dei Gentili. Ora, quanti dei firmatari saprebbero dire se il sostegno al contributo del Prof. Amaldi debba essere interpretato come appoggio al documento in toto? Quanti di loro ne hanno letto tutte le quasi centocinquanta pagine? Quanti sono a conoscenza del fatto che il Cortile dei Gentili sia un comitato creato e diretto dalla Santa Sede, al momento presieduto da Monsignor Ravasi?]